Marco Naccarella è stata l’unica persona sul cui blog ho postato in scrittura a quattro mani e, a volte, dandoci risposta. Non so se il suo blog sopravviverà a Splinder, per certo salvo qui almeno una delle tracce per la cattedrale sull’acqua che sono certa progetterà, immensamente bella come quella che ho visto in Colombia, in una miniera di sale.
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Maiko saluta la nascita (ancora una volta all’ospite, ed inchini)
L’apprendistato causato
dalla frequentazione assidua
dell’orinatoio di Duchamp
che solo e solo noi sapevamo
quanto fosse bello
e poi vederti vestirlo
come Panama per la sua certa
dimensione stringente
nella tua stanza così vasta
Questo era stato
proprio come amore
nella castità infinitesima
della distanza della pelle
da se stessa
E così solo quella forma
di stella si era disegnata
nel grido femmina
che emana quando
non c’è alcun tipo di soluzione
al risucchio della distanza
ed incolmabile amore
Che era stato gridato
e poi gridato
e poi gridato e solo tu
— l’ospite del vano
potevi chiudere una porta
assente la cornice
all’orma stanca del quadro
Nessuno mai aveva
potuto partorire dai testicoli
come facevi tu ogni volta
ed io soltanto quello —
ero e volevo —
non toccarti mai
e vedere dove amavi
E così è stato fino
alla nascita nel cui gemito
nessun qualcuno poteva
prevedere che nella variazione
l’orma del bambino
potesse non ripetersi mai
Due volte uguale
al passo lì nel vuoto
dove non posso più
vederti come si deve
come si concede
intero assorto modo
ed invariato e
in certo movimento
E se qualcuno ti ha
slegato i polsi
è stato mentre io
dormivo in quell’accanto
è stato il battito
del sogno, mio sogno
in sogno.
Non c’è nessun bisogno.
Ma vederti essere è il grazie.
Per tutto.
(n.g.ottobre 2010)
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Il letto è un fiume che ritorna
L’accostamento impossibile
del candore delle favelas
alla cortesia di taglio
delle pieghe nell’origami acquatico
che si compone nel tuo sguardo
di fronte al letto umido
in cui versa e si riversa
piccola pozza
la parola
pa
e pa ancora
sulla cima ombrosa dei ceri smossi
che per insania ed abitudine
sono candele
e non comprendono
circonferenze e strette
il té versato nelle nostre mani
assenti alla funzione
mentre nella chiesetta collinare
siamo due residenti che disabitano
in mancanza
dei documenti pur richiesti
a gran voce
mentre si fa silenzio
dove ricadono le ciocche
piccolo prato incautamente steso
sotto l’altare della remissione
nessun peccato, che peccato
il tempo che di noi abusa
lasciando traccia nell’inconscio
e la riconoscenza delle vittime
per queste povere sopravvivenze
allora pa
nella strettoia del confessionale
dove l’incenso inficia
quel fiorile che ti snerva l’occhio
nessuno scatto
Ed è così che lì
da qualche parte
ci si addormenta rannicchiati
forse sotto le mosse intransigenti
dell’orrore quando si spiana e placa
e si apre a questo cosa
qualche cosa
che si rimette a dio
ma tu lo sai
ed io che ero
assente
a quella cerimonia
mentre nel sonno scivolava
la salvaguardia a tutte le tue
forme di paura
e pa
ancora
non si può essere che esposti
come quei quadri rotti al pianto
a cui manchi la sponda
dell’avambraccio che li porta
e vanno
allora come rìvelata
prende forma la tua asma
cella manicomiale fatta d’ali di gallina
piuma leggera di colomba
ed insistenza a battere sull’uscio
che non possiamo intravedere
dove si cela il cielo
ove bisogna
stringere qualcosa
quel qualcosa
che ormai va al largo
ad ogni luogo del tuo corpo
corpo di dio
che come battito immaturo
manca il tempo
era per l’emergenza
che sussurrava il mio silenzio
non sapendo
allora pa lo dico adesso
(ma in silenzio)
(nerina, a Marco, per non esserci stata)
Nobuyoshi Araki – Il cielo è, come dire, un vuoto e dunque rappresenta la morte. Con le nuvole il cielo diventa vivo. Di solito lo riprendo in bianco e nero. Anche bianco e nero potrebbero esseri visti come il vuoto e la morte. Il cielo mi dà una sensazione vuota. In quel momento mi viene voglia di far scontrare i colori con il vuoto del cielo. Vorrei dedicare dei fiori al cielo vuoto: ho la sensazione che da questo punto di vista ci sia un rapporto tra cielo e fiori. I fiori sono vivi ma deperiscono e per questo mi attirano tanto: sento una sensazione erotica nel momento in cui li vedo appassire.
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La penetrazione degli anelli.
(The Guest, in 26 Minutes)
I.
Era per la penetrazione degli anelli
che la mendicante nutriva
d’ora in ora
i due serpenti e il loro giro di vite
E le boccucce imbronciate
delle passeggiatrici scalze
erano l’unico vaso
comunicante con la mezzanotte
Il vicolo che tradiva il vincolo
si crucciava dell’incompiutezza del delitto
e solo osava portare rimostranze
al piccolo brivido pianto a dirotto
Così forse l’assenzio o forse le due spighe
E l’ideogramma del mattino
A cui manca esattamente l’angolo
potevano intravedere la meraviglia dell’ingombro
La cavità di ogni carezza
Si fa rossa d’imbarazzo
All’ingresso del tatto
Di un tuo morso
II.
Il vento ristagnava tra due dita che.
Tenevano, una sigaretta telescrivente
solo sugli occhi.
Soffio senza bocca, dove.
Si sente: scrivevano su un segnalibro come
se non avessero dovuto mai voltare pagina,
vita, bullone e a destra.
Benda la memoria, quando.
Caduco è lo sconosciuto
perduto il compiuto
montagna di spazzatura il computo.
Rima con uno sputo, accento.
Attento: la sera traforata al limite
lucida l’erba della ragione
–
il coltello dalla parte del maniaco.
III.
Ed il mattino ricomincia
con le sue aperture inesauste
ottusi i gomiti puntano indietro
inosservanti
La macchina da scrivere è perfetta
per servire un caffé scorretto
e per percorrere lo spazio
che separa dall’inizio
Entonces
Il bianco ruba al bambino gli occhi
E veste le sue mancanze
di compunte scuse
E niente di questo è più adeguato
IV.
Il realismo obbligato dei muri
trova la, risposta nella pietà.
Usa, l’imperfetto.
Sei, è, Lei, Lui, Loro, e
presagio, indizio, segugio.
Pregiudizio.
Le mani ferite si appigliano
alla prua dell’abbandono
l’angoscia che penetra, vede
il ceppo in moto puro
se senza contare schianti
alligna il verbo. Senza fuoco a rendere.
La devozione alla notte stermina la lontananza.
V.
Minuscole le mani impunemete legate
Ed i grandissimi piedi assurdamente scalzi
Occhio per occhio
E denti
La siepe la ferita il taglio il morso
Le vie segnate a pelle arse e senza fuoco
Le scorciatoie senza uscite
Il buco lì nel sogno
L’ululato del lupo assurdamente vispo
Ai Tropici col geco in bocca preda
Di tormentate estasi corrotte
Lo strappo all’incavo
Dove hai l’anello ho divorato il vuoto
VI.
la nuda sospensione del volteggio in cui
le funi impiccano gli anelli
ellisse delle mani che
con gli occhi fissi
i punti nel coincidere corsivo
anche lussate e pelle zigrinata
iuta di sacco vuoto arrendere
coi polsi capovolti
interni
ad abbracciare le sue stesse ossa
due fuochi in controcanto scisso
mio scorporo sudafricano d’ogni sforzo
odore di pensiero caglio
ma se ti perso
e soprattutto e sottovoce
dormi nelle mie palme a libro aperto
vestali torturate di vapore
respiri con le palpebre
serrate d’una somma di bisogni da pagare
finché così di slancio
non mimo una carezza andando a vuoto
anello a nullo
VII.
Le scintille di un accendino bic scarico
il delfino che sogna le nuvole
una retina flottante con
informazioni di seconda mano.
Scrivono. Tutti.
Le istruzioni per un uso
prolungato della primavera
il lasciarsi ma soli.
Scarafaggi dentro una spider.
Correggi: schiacciare il dolore
con la rima di un mondo migliore.
E non, la riga, se devo, essere, sufficientemente,
bianco quanto una striscia pedonale.
(Continua, se vuoi. Quell’ “Io ci sono”
è diventato, oltre il verso).
VIII.
Tra pelle e ossa, solo la carne cerca,
identità, te lo dice la guerra di tutti
i giorni.
Quando la voglia deve bastare.
Ho bisogno di cucire due punti:
le labbra sui minimi dettagli,
per tenerli tutti per me
in loop e così
togliendo un quarto
tenendo per mano prima il vuoto
poi il suo freddo (e) infine
l’ultimo gesto della penna prima.
Di descriverlo.
IX.
Su di me,
adesso so cosa farò
da ora in poi:
tutto il niente.
Con il solo significato
la geometria delle mani,
il rovescio degli occhi respiro
il marsupio della natura
la sicurezza della vita in prestito
e delle regole in gioco,
senza i cinque anni di garanzia
la notte sogna il giorno come una calza violentata.
Il continuum é una scheggia rovesciata.
X.
Schiudile seduci e lecca
Questo la mendicante di orizzonti
Sussurra inerme sotto l’ala
Dei topi morsi dalla notte e resi alati
Ricordati della mascotte che adorna l’omero
Adunca e stretta
Del fiore che profuma fra le labbra
Dove si tocca inconscia la molestia
Mitiga il dilagare del terrore
Carezza il deglutire del piacere
Rischiara con il corpo il tepore del tremore
Orrore di coesione donato al disamore
Insinuati nel sonno, scopalo come un sogno
(e ora, di notte, continua. solo di notte, sfinisci i versi nostri, e siamo 3. E il terzo sia l’oracolo)
XI.
Le spalle forti di spalle.
Il cuore salato da non poterne
più, che fissarle.
Gli alberi alzano il tiro e l’esempio.
Quando. La scintilla ti, attraversa la
strada dentro, il film
è un millefoglie.
Un abbagliante mi dice di partire.
Senza passare da dove sai
in un ballo bagnato d’uva
con i forse che non fai
il dubbio non mi ascolta
Siamo macchie complanari.
(Per l’owner: le nostre stanze sono una crasi).
Confermo.
(Nerina Garofalo e Marco Naccarella, 23 novembre 2008)
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