Painted by Paola Marchi, Donna al Bar
Il dialogo con Dio si fa gattoni, annusando la terra
Ci sono poeti che riescono a tenere un equilibrio straordinario fra il sentimento della terra, l’origine, la corporeità, la finitezza divorante, e un margine di sguardo che sconfina, senza tremore e timore. Gianni Priano è uno di questi. Devo a lui l’aver pubblicato su carta la Circoncisione delle parole, l’incontro con Mirella e Aurelio Valesi, quello con Gianfranco Draghi, e l’esperienza straordinariamente ricca della co-gestione del blog aureliovalesi.splinder.com. E, in parte, la riapertura del mio dialogo con Dio.
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“i bar ci indagano. è così. ci ho vissuto dai 14 ai 29 anni, in un bar. assente solo per vacanza e malattia.si chiamava circolo bocciofila carrara. dietro il bancone ho conosciuto dinastie di gestori: valentina, dai candidi capelli bianchi; cardone, dal muso lungo e il piglio sbrigativo; angrisani, detto angry la nuit per il suo attaccamento alla vita; e parodi detto godiparodi perchè dell’attaccamento alla vita (tranquilla) era la parodia (parodia: da parodi, sostantivo etc). tranne l’ultimo che alleva asini in un paesino dell’entroterra gli altri sono tutti morti.
smisi di frequentare a 29 anni.
ero stato un bravo giocatore di boccette, al biliardo. uno spingitore di flipper, un bevitore di papaya drink e spume al ginger (e di birre, naturalmente).
il vino no…era davvero troppo terribile.
lo bevevano i vecchi: il belo, ai ai ai, mastrobirraio, benardìn. nessuno di loro aveva un nome. solo “nomaggi” cioè soprannomi. morti anche loro: tutti.
fuori una panchina azzurra che ha ben conosciuto i miei jeans adolescenti e giovani e i culoni, i culetti i normo-culi di noi, generazione figlia ormai tutta spruzzata di bianco e acciacchi.”
(Irazoqui)
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Nessuna scuola è un’isola

E poi c’erano i fiori, frutti delicatissimi della terra.
(n.g.)
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1)
Arrivo davanti alla scuola in anticipo, ancora qualche minuto per ritrovare la convinzione. Ho cercato questo incarico con la smania che mi prende quando un richiamo mi si appende alla sottana e non smette di tirare. L’estate l’ho passata a fare il tirocinio: 8 ore di lavoro difficile praticamente gratis. Non so che vado a cercare lì dentro, ma il luogo è di quelli buoni. Entro nel cancello aperto e incustodito. Comincio a salire e non vedo recinzioni. Il posto è bello, con bassi edifici in mezzo a un parco ondulato a poggi. Le piante sono ben curate, con schiere di cespugli fioriti dai colori innestati. La mano è di un anziano giardiniere che vedo passando e che neanche si volta, tanto è assorto nelle sue creazioni. C’è silenzio. Non si sentono più neanche i rumori della strada di sotto. Inizio a sentire di sottofondo quelli del posto, come uno strascicare di voci strozzate e passi scompagnati. Entro nel primo edificio. Su una porta c’è scritto “Direzione sanitaria”. Mi viene incontro il compagno neuropsichiatra che sembra appena uscito dal letto, con ancora tutti gli interrogativi notturni sulla faccia. E’ rassicurante nella sua mancanza di piglio dottorale. Mi indica la stanza. Entro. Un gruppo di ragazzini sui dieci anni riempie il locale con le loro carrozzelle, i corpi contratti, i farfugliamenti, le urla isolate, l’odore forte dei corpi. “E’ arrivata la maestra”, sento annunciare dall’assistente di classe. Un po’ di ironia nella sua voce. Lei è vecchia del mestiere e, tra i nuovi arrivati, mi ha inquadrata più rossa che esperta. Non le piaccio, troppo giovane, troppo poco materna, capelli troppo lunghi, abbigliamento troppo casuale per sapere fare scuola ai suoi ragazzini venuti male. Sono ancora sulla porta. L’impulso è di darle ragione e scappare fuori da quel quadro sghembo, ma Lulù mi chiede: “Che ora è?”, spalancando tutta la faccia a un sorriso. Che stupida, mi dico, da quand’è che ti fermi alle apparenze? Decido di entrare. Lulù mi ripete la domanda e ancora non so che è l’unica cosa che sa fare.
Sono rimasta. Ho imparato a padroneggiare la repulsione per bocche e sfinteri senza controllo, per la deformità di corpi come già vecchi, per l’odore di pelle, bave, fiati impastati di farmaci, per l’approssimata igiene quotidiana di capelli, denti, nasi, sessi, ho imparato a capire il loro linguaggio verbale per rispondere e a interpretare quello emotivo per accorrere, a usare i bastoncini colorati anche per contare, a infilare palline, a non strappare le protezione invisibili delle ossessioni di Roberto, a sapere dove andarli a cercare, a far scendere dal muraglione a strapiombo Giorgio che cantilena in falsetto: è pericoloso per il bambino stare qua, vero?, a intrecciare discorsi di sguardi, a leggere in coro le lettere sbilenche di Annarella, a costruire le pagine del nostro libro, a riattaccare al muro i disegni strappati, a inventare psicodrammi per condividere il dolore delle terapie fisiche, a giocare al mettiamoci seduti e mangiamo con la forchetta, a riconoscerci fratelli nei graffi dello stesso dolore, a rintuzzare a ranghi serrati l’indifferenza e il rifiuto degli abitanti del quartiere, a lasciare senza rimpianto l’agio del nostro ghetto dorato, tenendo dietro a stento all’improvviso risveglio di Sandro lo squalo, tre fila di denti e un poco di intelletto, che entra trionfante nella sua nuova scuola per alunni “normali”, mi sorride complice e mi dice con gli occhi chiari: stai tranquilla, non riusciranno a buttarci fuori di qui.
(B.B.)
Barbara Balzerani è nata a Colleferro (Roma) in una famiglia operaia. Ha partecipato al movinento del 1968 ed ha aderito, successivamente, a Potere Operaio. Laureata in Filosofia, a metà degli anni ’70 è entrata a far parte delle Brigate Rosse, fino al suo arresto nel 1985.
Condannata a più ergastoli, ha condiviso la “Battaglia per la libertà”, una proposta di soluzione politica per consegnare gli anni ’70 alla riflessione storica, liberare i prigionieri dalle galere e dalla logica di scambio della dissociazione e delle abiure. L’iniziativa ha avuto scarso successo e il dibattito proposto si è arenato nella letteratura politica o fanta-politica dei “misteri” e nella decontestualizzazione della lotta armata.
Attualmente è detenuta semilibera a Rebibbia, dove si è laureata in Antropologia, e di giorno lavora in una cooperativa sociale.
Ha pubblicato nel 1998 Compagna luna e articoli su Noi Donne e Via Dogana.
2)
Quello che segue è un episodio della mia lunga esperienza di didattica che può far capire l’evoluzione della scuola, i grandi cambiamenti che ci sono stati nel secolo scorso, soprattutto nel campo delle sperimentazioni didattiche, ma ora tutto ciò sembra debba essere cancellato dalla visione miope e ristretta di chi detiene le redini del potere e dimostra scarsa sensibilità e propensione per il campo educativo così fondamentale per la formazione delle generazioni future.
Ero con i miei alunni in una conca verdeggiante oltre le ultime case del paese. Riversi nell’erba tenera di aprile, guardavamo nuvole di bambagia trascorrere come rivoli nell’acquamarina del cielo; i bianchi cirri erano i nostri maestri negli “haiku” che stavamo componendo. Ad un tratto, come portata dalla leggera brezza, avanzò verso di noi una figurina nera, un fascio d’erba sulle spalle ricurve. Era Rita, una vecchia contadina. Quando ci ebbe raggiunti, sostò a riprendere fiato e, stupita, vedendo i bambini agitare bianchi fogli come ali di farfalle, chiese che cosa stessimo facendo. Per lei, che aveva frequentato solo la terza elementare, con un maestro dallo sguardo di pietra e dalla bacchetta facile, era incomprensibile una lezione di poesia all’aperto. “Scriviamo poesie” disse una bambina con un sorriso solare “le poesie non si fanno; si imparano a memoria”, ribattè la vecchia asciugandosi col dorso della mano la fronte gocciolante. Ne ricordava ancora una e, dopo lunga insistenza, ce la recitò tutta con voce cantilenante: narrava di un pennino che, troppo ingordo di inchiostro, aveva macchiato il foglio con gravi conseguenze per l’incauto alunno.
Poi fu la volta dei bambini che lessero le loro brevi composizioni mentre un usignolo cantava dalla boscaglia di gaggie, poco lontana. S’era creata come un’ invisibile rete tra noi, la vecchia e l’usignolo che regalava i suoi gorgheggi ad un cielo di cicoria fiorita.
Infine le invio una poesia inedita sul vecchio modello di scuola, fine anni Cinquanta, quando il maestro o la maestra erano spesso temute arcigne figure che trasmettevano il sapere “ex cathedra” e non v’era alcuno stimolo verso forme di creatività, anzi, spesso, gli educatori si dimostravano ostili nei confronti della creazione fantastica; io che mi divertivo a scrivere filastrocche, dovevo farlo di nascosto, per non essere sorpreso in cose giudicate inutili e fuori.
VEJA SCOLA
Un cel ed legn nèj.
Dai veri
la fiòca ch’ a se spòrza dal cuvert
am grigna -celest-
sensa che ‘l maestro on vega…
La piuma a bèiva
a gorà ‘d recit
endrinta ar caramà
e a scora sel feuj
lassand pèi dl’osel sla fiòca
trasse spalie del passè.
VECCHIA SCUOLA. Un cielo di travi nere./ dai vetri/ la neve che si sporge dal tetto/ mi sorride -azzurra-/ senza che il maestro se ne accorga…/ La penna beve/ a sorsi di scricciolo/ dentro il calamaio/ e scorre sul foglio/ lasciando come l’uccello sulla neve/ una pallida traccia del passare.
Remigio Bertolino è nato a Montaldo Mondovì nel 1948, vive a Vicoforte (CN). Ha lavorato per alcuni anni nelle Acciaierie del Tanaro, dedicandosi, poi, all’insegnamento nella scuola elementare. Ha iniziato a scrivere in dialetto piemontese negli anni Settanta con un racconto breve dedicato alla madre morta giovane, Mia mare. Ha inoltre pubblicato: L’eva d’envern (Era d’inverno), Amici di Piazza, Mondovì 1986; Sbaluch (Splendore), Centro Studi Piemontesi, Torino 1989; El vos (Le voci), Interlinea, Novara, 2003.
3)
Non posso non pensare che pedagogia e poesia siano la stessa cosa.
La mia pedagogia è in sostanza questa, che l’insegnante è un pastore, e gli alunni sono le pecore. Insegnare vuol dire portare a pascolare gli allievi, mentre loro pascolano bisogna stare senza far niente.
Mentre i ragazzi fanno il tema
Mentre i ragazzi fanno il tema
e le loro teste sono chine sul foglio
la stanza della classe riposa quieta
e brilla come una luce intorno ai loro capi.
Io li guardo, e la loro forza mi punge
-una ragazza è venuta a chiedermi una cosa
e nei suoi occhi celesti sprofondo-,
alcune delle fanciulle sono meno belle
ma nei loro tratti rivedo la gloria
delle donne latine,
i modi angusti e i lineamenti noti,
-penso a giovani donne prenestine, antichissime,
ornate di monili, eleganti,
e a povere fanciulle, a contadine, a pastore
dei secoli più bui-,
e anche i ragazzi, quanta gloria sui loro capi.
E in tutti, quanta attesa, quante speranze
-loro di tutti i miei allievi sono i più grandi, sono già grandi-
e penso: come non ho detto niente a loro!
come non ho fatto niente! -non avrei potuto?-
solo preoccupato di fare il professore,
nella fretta in cui sono sempre, e distratto,
come se non mi fossi mai accorto di loro.
E mi stupisco di essere stato capace
pure di galleggiare in questo abisso di luce,
di essere rimasto illeso, salvo, tra tanta forza di flutti,
tra tanto mare calmo come un cielo celeste.
(C.D.)
Claudio Damiani è nato a San Giovanni Rotondo nel 1957. Vive a Roma. Ha pubblicato raccolte poetiche tra cui Fraturno (Abete, Roma,1987), La mia casa (Pegaso, Forte dei marmi1994), La Miniera (Fazi, Roma1997), Eroi (Fazi, Roma 2001).
Ha curato, sempre per Fazi Editore, L’Arte poetica di Orazio nel 1995 e per Mondadori Le più belle poesie di Trilussa ( Milano 2000).
4)
Le “passeggere maglie” sono gli alunni.
(dispersa)
come un custode dell’acqua marina
mi giro in questa grotta irritrovata
dove padrona è l’epoca intestina…
un labirinto in cui non basta il filo
del verso che per le curve va
e la secca sente alla saliva
alla fine sgomenta della riva…
così parlò all’eco interminata
e a trame di passeggere maglie
con la lingua ferita dalle scaglie…
(E.D.S.)
Eugenio De Signoribus è nato nel 1947 nelle Marche, dove tuttora risiede, a Cupramarittima, in provincia di Ascoli. Svolge attività di insegnante, e collabora con riviste letterarie. Tra i volumi di poesia ricordiamo Case perdute (1989) e Altre educazioni (1991).
5)
Notte a scuola
La bassezza analfabeta
Il bidello si sedette all’ultimo banco accanto alla finestra. Di notte, senza bambini né maestre, le lucide superfici verdognole di quei piccolissimi tavoli riflettevano i mondi celesti che brillavano al di là del vetro. Impasti di blu con impulsi gialli e rossi. Avevano attaccato al vetro un paesaggio di carta: rondini qua e là, rami di pesco fioriti, margherite e coriandoli vegetali tra ciuffi di prato. La luce stellare, entrando dall’enorme altezza delle finestre, penetrava le fibre della carta, nei disegni, negli inchiostri a colori. Così innestata, invadeva l’aula, rendeva fosforescenza alle impronte delle dita, ai minuscoli misteriosi labirinti digitali dei bambini e della maestra. Il respiro del bidello andava e veniva, sollevando leggermente il lievissimo tessuto nero del suo grembiule. E in quell’aria crescente e calante, entravano dalle narici e si trasformavano sotto le sue costole molecole, storie, vite, voci… Ripeti il tuo nome. Non senti che la maestra fa l’appello…ti guarda…ha bisogno che tu dica presente e lo sia effettivamente per tutta la tua giornata. Dillo davanti a tutti che sei un uomo all’altezza dei bambini: nano. Ma vivissimo e cortese. Sotto il travestimento umano: segretamente elfo. Dì che abiti in una casina di marzapane dal tetto rubino buccia di ciliegia, cesellato dal becco dei merli di passaggio. Rivela il mistero della porta morbidissima di cioccolato al latte che si spalanca soltanto infilando l’indice. E leccandolo, naturalmente. L’omino verde che mangia la tenerezza delle foglie e la compattezza del cuore della lattuga è lì, solo e vecchissimo, seduto e ancora più intimamente piccino tra la schiena liscia dei banchi, fermo, rallentando il suo battito per concentrarsi. Così come può fare soltanto un nano. Togliendo innanzi tutto il dolore non necessario, le frane di umiliazioni le offese le incomprensioni…tutte sabbie che in un modo o nell’altro otturano l’inspirazione. Depositano terra ai polmoni, pesantezza senza semi nel regno aereo per eccellenza del proprio corpo. Poi, calmo in sé, sostò sui morti. Li attraversò. Li accettò. Li rivide in fila quei bambini che aveva accudito nel corso degli anni e di cui aveva osservato la crescita, i matrimoni, le loro successive paternità e maternità e che ora erano tutti usciti: passati per la chiesa e sotterrati.
I millesettecentodiciotti anni di un bidello elfo partirono dal ciglio in un segno liquido trasparente che precipitando giù, scivolando sulla guancia, riempendo le rughe, i solchi, le sgranature della pelle, si spaccò e ricadde sul banco in acqua salata. Quella non fu una lacrima. Gli elfi nani elaborano il dolore in acqua. E inversamente dai narcisi non vi si specchiano ma si chinano umilmente a berla. Zitti. Così fece, ad occhi chiusi, lingua sul banco.
(A.M.F.)
Anna Maria Farabbi è nata nel 1959 a Perugia, dove vive e lavora. Ha scritto per Noi Donne, Leggere Donna e Legendaria ed ha diretto il foglio letterario Lo spartivento. Traduttrice, critica letteraria e d’arte, ha pubblicato volumi di prose e di versi tra cui: Fioritura notturna del tuorlo (1996), Firmo con una gettata d’inchiostro sulla parete (1996), Nudità della solitudine regale. Marginalia (1996), Il segno della femmina (2000), La tua presenza (2002).
6)
A SCUOLA DAI BAMBINI
Lavoro in un luogo dove ho la fortuna di essere insegnante di passaggio, senza ruoli né
cattedre, per oltre mille bambini ogni anno. Li portano da me, a gruppi, perché io gli racconti come i cibi nascano nei campi e di come sia importante il rispetto della terra. Con loro pianto alberi, a loro faccio vedere come esce il grano dalle zolle, la farina dal mulino e gli spaghetti da una macchina. E li porto anche a vedere da vicino mucche e vitelli, a sentire l’odore della stalla che molti scoprono per la prima volta. Può accadere, raramente, che qualcuno mi inviti a parlare loro di Dio, ma in questo caso devo io aprire bene il cuore e le orecchie, perché il Dio in cui credo si è fatto bambino ed ha invitato tutti ad andare a scuola dai bambini.
Quasi sempre li incontro in primavera e all’aperto e tra essi prediligo i più piccoli, che ascoltano con attenzione, mi chiedono come mi chiamo e fanno a gara a starmi vicino o per tenermi la mano quando si cammina. I bambini hanno una capacità straordinaria di cogliere il carattere di chi gli sta di fronte, e subito, da come li guardo e dal mio modo di parlare, capiscono che con me possono essere amici e che li preferisco agli adulti per quella loro sincerità e voglia di ascolto.
I difetti che avranno da grandi in loro ci sono già tutti, ma come accennati appena, senza i veli dell’ipocrisia sopra. E poi non tutti i bambini sono uguali, ve ne sono di antipatici e aggressivi e non è detto che siano i peggiori: bisogna sempre vedere perché reagiscono in quel modo. Perciò una certa distanza va sempre mantenuta e la confidenza non deve mai andare a ruota libera: se ti sentono troppo come uno di loro è finita, per te e anche per loro, perché essi hanno bisogno di riferimenti chiari e sostegno solido oltre che di lealtà e amicizia.
Lo scorso anno, con una scolaresca che veniva da Milano, a colpirmi fu un ragazzino cinese. Faceva fatica a stare con gli altri, amava molto correre nei prati, parlava poco e aveva uno sguardo dolcissimo. Poche ore prima di salutarci, mentre rientravamo tutti insieme da una mattinata di cammino nei boschi, mi si avvicinò per dirmi: “Com’è bello stare qui”. “Vorresti rimanere?”, gli chiedo. “Magari!”, mi rispose con un sorriso colmo di luce. Non ho osato andare oltre, ma ricordo di avergli gettato un braccio sulle spalle camminando e chiacchierando insieme fino alla locanda. Gli insegnanti mi parlano della sensibilità di questi bambini che vengono dalla Cina, della loro incredibile capacità di apprendere una lingua tanto lontana dalla loro, ma anche della loro povertà, dei problemi che hanno in famiglia.
Ma di problemi in famiglia sono molti i bambini ad averne ormai, e i problemi della ricchezza, a volte, superano quelli della povertà. Un sospetto mi viene e una domanda mi faccio allora: non sarà mica che quei bambini mi cercano, mi fanno domande, mi stanno vicino prendendomi per mano, perché vorrebbero trovare in me qualcosa che il proprio padre non è riuscito a dare loro?
D.G.
Daniele Garota è nato nel 1957 e vive con moglie e figli in campagna, nei pressi di Urbino, dividendo il suo tempo tra la coltivazione della terra, una modica attività artistica e l’ approfondimento dei temi della fede cristiana. Deve la sua formazione soprattutto a Sergio Quinzio, a Paolo De Benedetti e a Guido Ceronetti. E’ autore di diversi saggi e fra i suoi libri ricordiamo: “Immagini del mondo contadino”, Roma 1982; “Una fede difficile e povera”, EDB, Bologna 1993; “Dio la carne e le ossa”, EMP, Padova 1996; “Credere con un figlio”, Piemme, Casale Monferrato, 1999; “L’onnipotenza povera di Dio”, Paoline, Milano 2001; “Il coltello di Abramo”, Paoline, Milano 2003.
7)
In tutta la mia vita all’esperienza diretta della scrittura si è accompagnata una forte esigenza di comunicare per altre vie, di parlare personalmente agli uomini. Così già sui 10-11 anni passavo i pomeriggi domenicali con mio cugino alternandoci in comizi di contenuto storico-politico, in cui io sostenevo normalmente tesi “di destra”.
Poi ho avuto una breve esperienza liceale in un gruppo studentesco ancora una volta “di destra”, esercitandomi a parlare in pubbliche assemblee in anni certamente non facili né pacifici, tra il 1971 e il ’73. A 17 anni organizzavo così piccoli seminari su Marx e il comunismo, per mostrare l’insufficienza di questa idea di rivoluzione, e la povertà filosofica e umana di ogni forma di materialismo. Ma che cosa volevo davvero comunicare? Questo l’ho compreso nei 30 anni successivi.
Nel 1976 aprii con alcuni compagni di scuola una delle prime radio private di Roma: Radio Gamma. Otto ore di programmazione al giorno: musica e parole. Un lavoro massacrante e divertentissimo. Tra l’altro fu proprio lì che conobbi Paola, che poi diventò mia moglie. Feci un giro per l’Italia intervistando Ugo Spirito e Nicola Abbagnano, Remo Cantoni e Augusto Del Noce, tutti i maggiori filosofi viventi, e poi ne discutevo con gli ascoltatori. In seguito venne il tempo del Centro Culturale L’Indiscreto, del grande convegno nazionale su Heidegger (1980), e degli innumerevoli incontri e letture che seguivano. Eppure sentivo con sofferenza i limiti di questa comunicazione a volte troppo specialistica e settoriale. Io volevo espormi di più, toccare l’umano più a fondo e più integralmente: questa d’altronde era l’esigenza che gridava nei miei versi, e che incominciavo ad esplicare anche nei miei saggi come urgenza epocale di rinnovamento antropologico.
Vennero così gli anni travolgenti della comunicazione di massa: 13 anni in RAI, circa 1000 ore di diretta radiofonica, di dialogo quotidiano con gli ascoltatori, di vero e proprio corpo a corpo. Era quello che cercavo: misurare le mie visioni poetiche e le mie acquisizioni teoriche ogni giorno col durissimo vissuto esistenziale delle più diverse persone che mi telefonavano. Fu una sorta di ascesi, sotto forma però di discesa nella carne. La mattina “vedevo” attraverso l’esercizio poetico, e la sera dovevo tradurre quelle visioni in parole comprensibili, commestibili per tutti. Questo travaso, o meglio, questa faticosa traduzione ebbe successo. Quando lascia il famoso “3131”, nel 1995, avevamo circa 800.000 ascoltatori al giorno. Eppure anche questo livello di comunicazione si stava esaurendo per me. Volevo rischiare ancora di più, forse adesso potevo farlo. Potevo mettere in gioco non solo la voce, ma tutto il mio corpo.
Così, proprio nel 1995, avviai, all’interno delle attività del Centro Eugenio Montale (di cui dirigevo i seminari dal 1985) un ciclo seminariale in cui mi ripromisi di sintetizzare tutta la mia vita, coinvolgendo i partecipanti in questa sfida di ricapitolazione e ricominciamento. Così nacquero “L’Uomo Nascente” e “L’Ordine del Giorno”, che poi divennero libri. Questi corsi delinearono abbastanza bene le tappe della trasformazione che urge nel cuore de ciascuno di noi e nel grembo lacerato del pianeta; ma molte persone dopo gli incontri mi chiedevano: d’accordo, abbiamo capito, ma cosa dobbiamo fare adesso, come possiamo favorire concretamente la mutazione della nostra mente? Ero forse arrivato al cuore della questione, al vero punto di svolta, ad un passo da un radicale nuovo inizio. Ma non sapevo come procedere.
Fu una gravissima crisi fisica e psichica, culminata tra il ’95 e il ’98, a donarmi una nuova sintesi interiore, e a guidarmi verso una forma di comunicazione, che sembra integrare i vari livelli della mia esperienza: l’ascolto poetico, la riflessione teorica, il dialogo profondo, l’orizzonte spirituale. E così da quattro anni conduco gruppi di trasformazione presso l’Ateneo Salesiano di Roma in cui tentiamo di condividere quella rivoluzione permanente che è la metanoia cristiana, attualizzata però in questa fase cruciale della storia del pianeta, e cioè calandola nel clima psicologico e culturale dell’uomo contemporaneo. Non era questo desiderio di cambiare insieme me stesso e il mondo, e di condividere questa trasformazione l’anelito centrale di tutto il mio lavoro fin dall’inizio? Ormai mi sembrava evidente che la parola poetica, o la riflessione teorica, o altra attività culturale di insegnamento abbia senso solo se si pone concretamente al servizio di questo processo di liberazione (interiore e insieme storico-politica) che è appunto “all’ordine del giorno” dell’agenda del pianeta: ciò che ognuno è chiamato a fare. Spero solo di essere sempre più dolcemente guidato verso l’adempimento dei miei compiti all’interno del grande progetto di rigenerazione dell’uomo che procede ineluttabile nonostante tutte le nostre resistenze.
(M.G)
Marco Guzzi è nato a Roma nel 1955. Laureato in giurisprudenza e in filosofia, poeta e saggista ha pubblicato molti libri tra cui, in ambito poetico, ricordiamo Il Giorno (Scheiwiller 1985), Teatro Cattolico (Jaca Book 1991), Figure dell’ira e dell’indulgenza (Jaca Book 1997). In ambito filosofico e teologico segnaliamo Passaggi di millennio (Paoline 1998) e L’Ordine del Giorno (Paoline 1999). Ha condotto diverse trasmissioni radiofoniche per Radio-Rai fra cui: 3131, Respiri, Sognando il giorno.
Conduce attualmente “gruppi di trasformazione” presso l’Ateneo Salesiano di Roma.
8)
ROCK E DIDATTICA ( Embrione mutante in contesto terminale)
Una costante incidentale ciclica, la mia esperienza nella scuola. A volte succede che si ripresenti senza che io la cerchi. Detesto l’idea di questo Karma che mi perseguita, ma perfino ora mentre scrivo mi rendo conto di essere ancora uno che si picca di insegnare, sebbene in questa veste sia sempre rientrato dalla finestra, dopo essere uscito sfondando la porta principale.
Da sognante ragazzino postbellico negli anni ’50, divoratore di avventure salgariane e vera macchina di soddisfazioni per insopportabili genitori proletari, l’embrione mutante del Rock mi ha portato in pochi anni struggenti da primo a ultimo della classe, mi ha dolcemente cullato nei luoghi del torto, mi ha iniettato frenesie nevrasteniche irreversibili, contagiose e planetarie.
Una santa globalizzazione è stata questa (musica ?) generazionale.
In quegli anni “ho visto cose che voi umani” del dopo ’68 non potete neppure immaginare: gli eskimo di feroci pacifisti fare l’alba alle porte della FIAT, accamparsi nelle aule magne, imperversare nelle piazze barocche, uccidersi nei bar. Ho visto me, rocchettaro torinese del movimento, laurearsi durante il servizio di leva a Spoleto passato a evadere di notte per unirsi a teatranti freak del Minnesota e a scrivere di giorno una tesi sui Beatles di mille pagine. Ho visto nel ’72 gli occhi dei miei primi allievi posarsi sui miei pochi capelli lunghi e sorridere. E mentre aspettavo il successo come Godot ho sentito la mia voce rimbalzare sui muri della classe con i versi di Dante, Ginsberg, Lennon e Neruda.
Ho rovinato almeno una dozzina di classi prima di capire che se fai il professore devi anche cercare di esserlo (anche se non in eterno, perché è il lavoro che usura di più).
Imitando Lutero ho chiuso la mia carriera inchiodando sulla porta della presidenza 95 tesi contro le indulgenze sindacali e ministeriali del “promuovere ad ogni costo” ( io, pentito, che prima promuovevo senza pietà tutti quei “Baradel” così deliziosamente ignoranti). La prima tesi era:”L’unico insegnante buono è quello morto”. La cosa è finita sui giornali, il mio dossier in Provveditorato è diventato spesso come quello di Vallanzasca in Prefettura.
Ho fatto anche incavolare la sinistra (meno del Cavaliere e più di Moretti) fin dalla metà degli anni ’70, come vate del riflusso, associandomi ai nuovi filosofi francesi nella “critica dall’interno”. Ho guardato senza comprensione e senza colpa l’ indiano metropolitano alzare tre dita come P38 mentre applaudiva i miei concerti e ho riso del “mentecattocomunista” che comprava i miei dischi.
E ho scritto canzoni per e contro tutti, presidi e colleghe carine, amanti e compagne ottuse, canzoni d’amore per la mia generazione e di odio per i suoi sacerdoti, per il suo gergo demente, le sue deliranti velleità, le sue nobili ipocrisie. Sempre ostinatamente nella nicchia del torto ai margini del sistema, ignorato da prede e predatori, plaudito da pochi mutanti, virale e catastrofico solo nei sentimenti e nelle parole.
Il mio metodo per la didattica della letteratura italiana e per scrivere le mie canzoni è sempre stato lo stesso (oggi si definirebbe “fuzzy”, nel linguaggio informatico): butti lì dei segnali e delle notizie aliene e casuali, ti liberi caoticamente dei tuoi pochi saperi e li scagli sulla lavagna senza un nesso apparente, senza gradualità, senza linearità. Questi segni scagliati, raccolti o meno in appunti dagli studenti, prima o poi speri che diventino un’immagine, un disegno di cui potranno costruire e fruire a loro piacimento senza che tu ne diriga il senso. Siccome per me funziona, continuo a farlo; ma per altri sarebbe delirio. Non ho mai insegnato grammatica e sintassi, che ho sempre ignorato come la matematica, ho sempre proposto lessico e stile. “Ogni parola che non conosci è un’arma contro il terrorismo culturale”- dicevo ai miei studenti-“può essere tua se la conosci o di altri se la ignori ; essere istruito significa anzitutto essere armato, non necessariamente una persona colta e intelligente, ma per forza rispettata”. Ho spiegato anche il ruolo ingrato del libero pensatore, Kamikaze avverso alla stupidità, anticorpo demolitore e vittima dei mali sociali, depositario di almeno quattro requisiti “sine qua non”(non ideologico, non confessionale, non sprovveduto, intellettualmente onesto) più altri opzionali che riguardano un minimo di intraprendenza, fantasia, felicità, eccellenza, non così comuni ma utili.
Questo insegnavo e questo cantavo, prima di diventare un sedicente survivalista o antropologo evoluzionista che tiene un corso di abilità ecodinamiche all’Università ma insegna anche Ecologia Umana a bimbi delle elementari, depensionandosi al motto di “sopravvivere per vivere”; prima di fare un po’ il giornalista o allevare per qualche mese lombrichi rossi della California; prima di fondare con uno storico dell’Africa poco raccomandabile il “ Movimento Crudista”(1° capitolo del manifesto: ascolta il mostro che c’è in te) e con due ingenui intellettuali il misconosciuto “PULL”(Progetto Umanesimo Laico e Libertario); prima di scoprire che sono infotecnofobico, che la Natura di cui si parla non esiste fuori di noi (naturalmente sostenibili) e che i cani non sono buoni come i bambini non sono innocenti, etc.(come da mio inaccettabile curriculum).
Quando tutto ciò era ROCK: il MODO (il volgare, Elvis); l’IDEA (il bello, i Beatles); lo SPIRITO (la poetica, Dylan); la CARNE (il vizio, i Rolling Stones).
Quando tutto ciò era “DIDATTICA dell’esistenza”: l’insegnamento, come ora finalmente può dire il filosofo del pensiero complesso ( Morin), dovrà distruggere la specializzazione e tutte le attuali materie per adottare la transdisciplinarietà in pochi macrosettori di riferimento come l’antropologia e la cosmologia. Per arrivare a questo devono cambiare non solo i programmi scolastici ma anche gli insegnanti (non si sa in che ordine, se prima l’uovo o la gallina). I requisiti base di ogni nuovo docente “aperto” a mutazione-evoluzione non saranno più dunque “competenza-metodo-professionalità”, ma PASSIONE-MISSIONE-CONVINZIONE. Peccato che nessun esame di abilitazione li abbia mai previsti e che nessuna commissione sia in grado di valutarli.
Per questo l’insegnante oggi rappresenta l’elemento terminale della nostra cultura ; il suo destino è accelerare il processo di decomposizione del sistema educativo attuale, che ha i giorni contati. Proprio quando ha raggiunto la maturità infatti, ogni sistema (ecologico, didattico o politico che sia) acquista la facoltà di opporsi ai cambiamenti. Sono i sistemi giovani o quelli devastati che mutano più facilmente e sono più autocorrettivi, come l’America e l’Iraq (non l’Europa).
Imparare, per la specie umana, è cosa necessaria quanto l’aria ma sempre dolorosa, come la sculacciata quando nasci, che ti insegna subito l’eterna condizione (“no pain, no gain”).
Non si può imparare niente giocando, anche se il gioco è più utile dell’apprendimento.
Il docente è come un attrattore del caos all’interno di un sistema dinamico complesso e imprevedibile, ai cui margini si produce sempre ogni selezione naturale e sociale.
“L’azione è quello spazio lasciato libero dall’altrui inadempienza”, diceva un prof-assessore socialista scampato a “mani pulite”. Aveva ragione, si possono solo riempire buchi liberi o praticare nuovi buchi in quella vecchia corazzata che è la cultura occidentale, inclinata su un fianco. In certi periodi come questo l’omeostasi rappresenta solo una pausa prima della catastrofe, per cui nessuna azione è davvero importante, lodevole o criticabile: tappa molti buchi e la corazzata galleggerà ancora un poco, apri troppi buchi e questa si inabisserà più in fretta. Io sono uno che ama l’effetto liberatorio e rigenerante delle catastrofi, ma adoro anche tappare i buchi e sono un buon nuotatore, dunque non ho particolari ansie e dubbi sul cosa fare.
Insegnare è proprio come cantare o”vivere” in generale : può andare bene solo quando serve, interessa, diverte o emoziona. “Il resto è gas”, come diceva Mick Jagger in “Jumping Jack Flash”.
Torino, I° maggio 2003
Enzo
Nasce a Torino nel 1946. Si laurea in lettere con Massimo Mila su un argomento di carattere musicale (“Beat e Beatles). Esordisce nel 1975 con un disco intitolato “L’industri dell’obbligo” in cui emergono insofferenze rispetto al mondo scolastico e politico-sindacale. Nel 1977 esce “Barbari e Bar”: protagonisti i bar di Torino. Nel 1983 pubblica un Lp intitolato “Immaginata” e, nel 1986, “Tropico del Toro”.
Fondatore dell’ I.S.A. (International Survival Association), del “Salgari Campus” (uno spazio sulla collina torinese attrezzato per Surviving, Ecologia Umana e avventure cognitive per le scuole) è autore, insieme all’antropologo Alberto Salza, del manuale di Survival “Dati per vivi”. Dal 2001 tiene un corso di Abilità Ecodinamiche per l’Interfacoltà di Scienze Motorie dell’ Università di Torino.
Ha insegnato lettere nelle Scuole Medie dal 1972 al 1988.
9)
Schiudere i cuori dei fanciulli alla Somma Conoscenza, è inutile negarlo, è un bel casino. Quando poi si tratta di insegnare poesia…
Con tutte le difficoltà che si trovano per far capire la differenza tra un verbo transitivo (“no, andare non transita!”) e un verbo intransitivo, com’è possibile iniziare i giovani alle prelibatezze della Sapienza, introdurli nelle Segrete Cose?
Eppure, i ragazzi sono lì, già tutti pronti a sporgersi sugli abissi della loro anima, frementi e impauriti come uccellini al primo volo. Noi adulti, invece? Ci buttiamo nelle aule come soldati in trincea.
Per insegnare, bisogna sentire. Essere coscienti anche di tale contesto.
Soprattutto per insegnare poesia, bisogna educare a sentirla. Non c’è bisogno di spiegarla, o meglio, lo si può fare soltanto dopo averla già bevuta.
Prima regola: innescare la sete.
Seconda regola: abbandonare il tempo del pensiero normale ed entrare nel tempo della poesia. Leggere, insomma. Rispettando il tempo della poesia, non le scansioni con cui vorremmo somministrarla. Facendo gustare il reato che si sta compiendo nel cuore delle istituzioni.
Terzo: non dire: “guarda, c’è una allitterazione”, ma fa’ loro sentire la folata di vento dei suoni che ad un tratto si apre nel testo: facciamola finita fammi fuori.
Qualcuno dirà: ma così si vuole impressionare gli alunni creando un contesto poetico, piuttosto che fare loro veramente capire la poesia.
Falso! La poesia non può vivere nella loro mente, in qualche luogo astratto e separato: può pulsare soltanto nel loro corpo, battere nelle loro tempie, innervarsi nelle aule, spezzando il fiato al compagno di banco, sentendo il singhiozzo emozionato dell’insegnante che legge: solo lì abita la poesia. Nel folto della vita.
Non avranno memorizzato un solo verso, in questo modo? Pazienza, lo faranno dopo. Avranno, piuttosto, trovato il punto da cui può nascere la poesia: non dai libri, ma dalla voce. «E poi che la sua mano alla mia puose, / con lieto volto, ond’io mi confortai, / mi mise dentro alle segrete cose».
Quante manine tese e trepidanti, alzando la testa dalla cattedra!
(M.M)
Marco Merlin è nato a Borgomanero (NO) nel 1973. Dirige, insieme a Giuliano Ladolfi, la Rivista di letteratura “Atelier” e la collana di poesia “Parsifal”(Edizioni Atelier). Ha pubblicato numerosi saggi critici sulla poesia contemporanea. Firmandosi Andrea Temporelli scrive egli stesso poesia. Tra i suoi testi ricordiamo il volume di versi ” Il cielo di Marte” (1999).
10)
Complesso, il mio rapporto con la scuola. Di non irreprensibile “condotta”, ho sempre percorso aule e corridoi con il piglio diffidente di certi stranieri in Italia – e di uno straniero, nel mio caso, con l’incedere degli anni, sempre più appartato, “solo e sdegnoso molto” addirittura. Il Grazia Deledda, il liceo linguistico d’élite in cui ho trascorso tanta parte dell’ultima adolescenza, ha contribuito ad acuire la mia naturale vocazione all’estraneità. Eravamo, lì dentro, se non sbaglio, appena diciotto “maschietti” dispersi fra più o meno ottocento ragazze: eravamo noi diciotto, nel bene e nel male, allora, i diversi – e io, poeta in erba che avrebbe portato nonno Yeats e zio Luzi alla maturità, il diverso per eccellenza, naturalmente, il fuori luogo per definizione.
Mi domando a volte se quella del Deledda, così radicalmente formativa, non sia un’esperienza sotto sotto inconcludibile. E mi domando ancora, per esempio, se nella mia scelta di non fare l’insegnante abbia giocato un ruolo il senso di indifesa spaesatezza che ogni mattina mi assaliva in mezzo a quell’esercito di figliole di buona famiglia, visiting angels, semplici compagne di un tratto di vita o virago che fossero…
Vent’anni dopo (tornando al Deledda)
Guardare così in fondo è una salvezza difficile.
Qui ho imparato a leggere i poeti nell’originale,
qui ho perso i miei giorni più dietro agli amorini che ai libri,
qui ho concepito solo ologrammi di pensiero
e non pensieri veri, preso com’ero a tridimensionarmi nel look.
La fissa, anzi il problema, era il mio bello
corporale, il naso grosso, l’altezza che scoprivo appena media,
mentre alle volte il dubbio consisteva in cose solide e più trendy
tipo comprarlo o non comprarlo quel Moncler…
La scuola ai nostri tempi era un incrocio metropolitano:
ci si incontrava tutti per le scale ogni due ore
chiusi ciascuno all’altro nella propria orbita, per via
dei segni sulle guance sfatte d’acne, per la rabbia,
perché ciascuno porta a spasso il suo segreto singolare,
perché vivendo è semplice far finta di parlare e non parlare,
ma più per quella pazza rotazione delle classi
che almeno sui gradini, fra una lezione e l’altra, ci eguagliava.
Visitarla? L’ho fatto – come una specie buffa di diavolo in disguise,
ci ho camminato dentro a passi lenti, un po’ ingobbito,
con sulle spalle il peso sovrumano
del sessantenne sorridente in mezzo ai suoi fantasmi
fra le bimbe, e mi è tornata in mente la scrittura di Flaubert
che chiude il libro di ogni persa giovinezza con la frase
e forse è stato proprio allora il nostro meglio.
(Massimo Morasso)
11)
Peppino Orlando
La scuola è soprattutto parola, la scrittura è molte altre cose. L’interlocutore di chi parla a scuola è una persona reale non virtuale: Alla parola si richiede ascolto, correzione, adattamento, percorsi alternativi, tutti gli artifici della retorica come linguaggio dei sentimenti nel loro formarsi e fluire. L’interlocutore dello scritto è immaginato in maniera varia ma eccede sempre un interlocutore nuovo e inedito nel tempo e nello spazio. Si apre con lo scritto il mondo ermeneutico, la serie delle interpretazioni e degli adattamenti affidati al libero arbitrio di chi legge (tradizione – tradimento). A scuola, se esce dall’infernale circuito spiegazione–interrogazione con voto, nasce un rapporto umano personale che si sviluppa nel tempo scolastico in una chiave culturale ricca di contenuti. Inserita in un circuito vitale di scambio amicale, l’autorità può essere autenticamente “augère”, far crescere e crescere con. Una scrittura richiede sempre un interprete, tradizione viva di persona che incarna il messaggio. Per ciò sta scritto: “la lettera uccide, lo Spirito vivifica”. La scrittura, anche la Sacra Scrittura richiede l’interprete autentico, una vita non una lettura meccanica. Di qui l’ipocrisia sempre in agguato nell’insegnante che non rende viva la scrittura con la parola incarnata. Gli scritti durano, le parole volano, ma insieme fanno volare durando e durano volando.
(P.O.)
Peppino Orlando nasce a Grottaminarda, in provincia di Avellino, nel 1937. Vive a Genova dal 1965. Ha compiuto studi giuridici, filosofici, teologici. collaborando dal 1968 al 1982 con Andrea Galimberti presso l’Università di Genova.
Redattore della rivista fiorentina “Testimonianze”, fondata da padre Balducci, è autore di vari volumi di approfondimento delle tematiche religiose e della critica militante alle Istituzioni ecclesiastiche. Segnaliamo qui il volume “Comunità di Oregina. Evangelo e marxismo nel dissenso cattolico” e il poemetto intitolato “Laila e il fuoco”. Ha svolto per anni l’attività di insegnante di Storia e Filosofia presso un liceo genovese.
12)
Il gatto con la coda ad anelli.
Quante cose scaturiscono dall’apparente immobilità…
A tappeto rientro in me, contatto il mio centro, ricerco il silenzio dell’intuizione, viaggio attraverso tutto ciò di cui poi proverò a scrivere, tentando possibili condivisioni…
Allargo il mio orizzonte di senso, mi ristoro alla fonte della compartecipazione con tutte le creature che popolano gli universi, le sento palpitare in me, ne sento lancinante l’angoscia così come ne assaporo l’armonia….
E’ di questo ritorno, certo, che scrivo; ritorno a sé stessi, all’epicentro di tutte le domande e di tutte le risposte, dove ridere delle miserie dell’antropocentrismo, dove scoprire la bellezza dell’esperienza spirituale che insegna che siamo uno e che siamo tutto, dove non esiste l’altro da noi, dove tutta questa sofferenza e tutta questa gioia vanno condivise poiché ci riguardano direttamente….
A tappeto contatto il ‘tao’, la via, per il più impegnativo e sublime dei viaggi…
Ed è di questa via che scrivo; la via che insegna l’impegno, la partecipazione, la via che suggerisce questo consuonare, che sprona ad alleviare i dolori causati da certi nostri spudorati dissimili simili, a tentare di cambiare davvero, di cambiare di dentro, e di cambiare la realtà…
La via che conduce verso il miglioramento del sé e dell’intorno….
E’ di questo che ho scritto e che scrivo….
A tappeto, anche, per insegnare….
Insegnare il respiro, inspirazione-espirazione profonde, sorgente della voce, elemento-motore del canto, il diaframma sprofonda e ci trasforma nel più prodigioso degli strumenti musicali!
A tappeto conduco l’allievo verso il suo strumento musicale ‘voce-cantata’: scopriamo ogni muscolo che lo sostiene e che lo appoggia -meccanica perfetta-, ritorniamo a quel respiro primordiale e profondo che è dei bimbi e degli animali, che era anche nostro e che abbiamo dimenticato, perduto…
Lo ritroveremo, e il nostro mantice polmonare, che solo a tappeto può essere insegnato e appreso, diventerà la sorgente di suono, attraverso perfezione matematica e rivoluzione della creatività dell’arte…
A tappeto getto, così, le basi del mio scrivere e del mio insegnare l’uso della voce cantata.
Un monaco Maestro di canto proibiva alle sue allieve di mangiare carne poiché, diceva il vecchio saggio, assumere cibo derivante da sofferenza, violenza e angoscia, abbruttisce il corpo e l’anima e allontana da ciò che è puro e tende al divino, come il canto.
Un giorno una giovane allieva del Maestro, dotata e promettente, decise di contravvenire il divieto e mangiò la carne di una giovane vitella che era stata uccisa.
‘Per una volta…. Il Maestro non se ne accorgerà!’.
Il giorno successivo, ascoltando il canto della giovane, il vecchio Maestro saggio subito si accorse di quanto era capitato e invitò l’allieva a non macchiarsi più quella violenza che già da subito aveva incrinato la purezza e la sublimità della sua voce.
A tappeto, ama accomodarsi sulla mia pancia uno dei miei numerosi gatti, quello con la coda ad anelli.
Claudia Pastorino, cantautrice e scrittrice, ha pubblicato tra l’altro “La centratura del tao” Ed. Clandestine; “Saman Suttam” Mondadori; “Il Jainismo, la più antica Dottrina della Nonviolenza, della Compassione, dell’Ecologia” Ed.Cosmopolis; “L’Essenza del Jainismo” Editori Riuniti. Insegna ‘tecnica di canto’. Da vent’anni è attivamente impegnata nel volontariato per i diritti degli animali.
13)
Insegnare oggi: pessimismo della ragione/ottimismo della volontà
Entrare nelle aule docenti o soffermarsi ad ascoltare qualche discorso nei corridoi delle nostre scuole è forse il modo più efficace per sentire il polso del malato. Il malato parla d’altro, non del suo male. Quando lo fa ne parla con rabbia, il più delle volte senza speranza. Così diverte ora allietandosi con l’ultima compera o elogiando il taglio nuovo dei capelli, ora lamentandosi dei figli o progettando la prossima vacanza. Più spesso l’argomento è la denigrazione degli studenti, che non sono più quelli di una volta! Nelle aule docenti è raro respirare l’aria sana del pensiero.
Vorrei partire da qua per focalizzare l’attenzione sulla relazione educativa perché essa risente, a mio avviso, moltissimo di una serie di fattori impliciti che creano ulteriore confusione nei giovani. La società adulta dice tante cose agli studenti che si recano a scuola. Quello che dice a parole è evidente, proclama la centralità dell’alunno, l’importanza della formazione per lo sviluppo, l’utilizzo delle nuove tecnologie, l’imperativo dell’educazione alla salute, la sicurezza e altre cose ancora. Quello che invece non dice a parole, ma esprime eloquentemente, si potrebbe così sintetizzare: non ci importa poi molto di voi.
Se davvero fossero così importanti i nostri studenti perché mai non dovrebbero studiare in luoghi confortevoli e funzionali all’apprendimento e alla socializzazione, con tempi e strumenti adeguati, con spazi aperti dove passeggiare e discutere, laboratori dove vivere l’apprendimento in modo attivo e creativo? E poi sarebbe diffusa una più elevata considerazione sociale dei professori. Invece no. Tanto più la società adulta dice che sono importanti, tanto meno investe energie e risorse su di loro.
Rimane per fortuna qualcosa di profondamente umano (un residuo irriducibile) che fino ad ora, tra innumerevoli ostacoli, garantisce che si possa ancora aprire un dialogo guardandosi negli occhi: è il rapporto educativo.
Un ostacolo strutturale, che rappresenta uno snaturamento della relazione educativa, è il dispiegarsi del “paradigma” economico che ha colonizzato, soprattutto in questa fase della tarda modernità, via via ogni ambito della vita sociale. Sembra impossibile sottrarsi alla sua forza attraente che ne trasforma le strutture ed il linguaggio, per cui oggi anche nella scuola abbiamo debiti, crediti, contratti formativi, razionalizzazioni, piani dell’offerta formativa, utenti ai quali offriamo un servizio ecc…
La riduzione in termini economicistici dell’educazione è una operazione rischiosa, non solo nell’applicazione di criteri di taglio delle spese, che è già un forte limite, ma soprattutto nell’imposizione di un modello inadeguato per leggere la realtà educativa. Prendiamo il concetto di tempo. Per la logica economica esso va risparmiato (il tempo è denaro), accorciato, ridotto attraverso opportuni programmi di pianificazione (come ad esempio nel taylorismo dell’industria americana), ma nel campo dell’educazione (“educere” significa tirare fuori oppure curare nella crescita) l’uso del tempo ha ben altre logiche che implicano l’attesa, l’investimento “a perdere”, la cura, il rispetto dei ritmi di crescita.
L’imposizione del modello economico, con la razionalizzazione delle procedure, ha portato all’adozione di un linguaggio innaturale che, usando un neologismo, si potrebbe definire ptydepe. In una commedia di V. Havel dal titolo “Circolare ad uso interno”, il termine indicava una lingua artificiale, simbolo dello svuotamento del linguaggio ad opera dell’ideologia. È esattamente la sensazione che si prova di fronte al linguaggio delle circolari, dei regolamenti, delle più sofisticate griglie di valutazione. O forse è ciò che provo io.
Perché mai, mi chiedo, gli studenti dovrebbero rispettarci come “categoria” se la nostra identità sociale è vacillante, il nostro profilo sfuggente, la nostra funzione svalutata?
Da postmoderni non possiamo più illuderci sulle possibilità dell’educazione intesa già da Comenio come “rigenerazione dell’intera umanità”. Troppe volte la storia ha dimostrato che l’applicazione di questo principio o rimaneva lettera morta, ideale utopico, oppure, se applicato e imposto con metodo e violenza, si trasformava in un incubo terribile (come nella “distopia” orwelliana del “Grande fratello” oppure nei regimi totalitari del ‘900).
Poi, molte analisi sociologiche descrivono una società dell’immagine, dei simulacri (Perniola), caratterizzata dalla crisi di senso (l’era del vuoto la definisce Lipovetsky) e del sociale (è l’epoca delle maggioranze silenziose secondo Baudrillard) che lascia poco spazio al credere pedagogicamente in “magnifiche sorti e progressive” .
Ma di fronte a questo, e proprio per questo, si accende in me un insospettato “ottimismo della volontà” che mi spinge, a dedicarmi con ancora più passione all’educazione.
Mi sono fatto l’idea che, nonostante tutto, non si debba perdere il coraggio, né percorrere la via della rinuncia (ma quanta rassegnazione nelle aule docenti!).
Sono ormai scettico sulla realizzazione di una società perfetta, ma lavoro come se fosse perfettibile. La strada irrinunciabile, l’ultima trincea, per me è cercare nel qui ed ora del rapporto educativo i segni della crescita dell’uomo; riconoscere e difendere la grandezza dell’umanità che è in ognuno di noi; aiutare, poi, i giovani nella scoperta della forza del loro pensiero, della fantasia, della creatività di cui sono capaci e impedire (consapevoli dello scacco cui, da educatori, andiamo incontro) che le forme vuote della nostra società dei consumi pieghino la loro fragile volontà. È una pedagogia debole, che percorre “sentieri che si perdono nel bosco”, quella a cui mi sento di appartenere, eppure tenace e realista nella prospettiva di migliorare l’umanità (si potrebbe dire un Illuminismo kantiano rivisto e corretto alla luce della deriva post-moderna).
Amare i nostri alunni significa così, al di là del pessimismo, gettare uno sguardo sulla possibilità, e sulla speranza, alimentando la nostra azione educativa secondo una modalità del “come se”. Come se ognuno potesse realizzare pienamente l’umanità di se stesso.
A. Poggiali
ANDREA POGGIALI (Genova 1963). Insegnante e pedagogista è autore di
numerosi testi tra cui /Percorsi nelle scienze sociali. Un’antologia
per la ricerca, /Edizioni Clitt, Roma 2001
13)
Un caso di schizofrenia
di Lino Straulino
…scrivere canzoni è una di quelle cose che hanno a che fare con l’imprevedibile… non so mai quando accadrà di nuovo… anche se conosco molto bene ormai come funziona.
Tutto inizia con qualche debole segnale, qualche traccia di melodia o delle parole che ti aprono un piccolo spiraglio nella mente…questi segnali li avverto nel giro di un giorno o due… li so riconoscere ormai molto bene per via che tutto l’arrancare dei giorni e delle settimane precedenti attorno ad un brano diventa improvvisamente qualcosa di concreto e si traduce in una vera e propria canzone finita nel giro di poche ore… allora mi preparo perché so benissimo che durante i tre, quattro giorni successivi le canzoni arriveranno come i fiocchi di neve… durante il culmine della “bufera” potrei arrivare a scrivere anche sui muri mentre le parole e le melodie continuano a fluire per ore … è una festa… uno stato di grazia!!! Talvolta mentre sono dentro a questo viaggio delirante non so bene cosa sto scrivendo, so solo che devo andare avanti fino alla fine, fino al punto in cui l’energia si smorza e tutto scompare come neve al sole. In quei giorni lì vorrei poter stare con me stesso fuori dal mondo ma disgraziatamente questo è difficile se non impossibile.
Così capita che mi trovo a scuola e tra una lezione e l’altra o rubando i tempi alle ricreazioni cerco di scrivere e scrivere con la consapevolezza che molto comunque andrà inevitabilmente perduto e l’attività a scuola finisce per frapporsi e contrapporsi al comporre… Mi viene naturale così associare l’attività scolastica ad un periodo di latenza che considero tuttavia necessariamente inevitabile ed importante anche ai fini del lavoro compositivo… In effetti mi sono accorto che c’è bisogno di lasciare oziare lo spirito, non si può sempre spingere sull’acceleratore!!!
Una volta, durante i periodi in cui componevo, provavo fastidio nei confronti del lavoro a scuola perché avvertivo in esso un grosso impedimento al mio scrivere, soprattutto perché mi toglieva tempo ed energie; ora invece considero con più indulgenza questo spazio di tempo dove mi trovo costretto a fare altro… anche se mi fanno ancora paura i momenti di noia, dove le azioni quotidianamente si ripetono continuamente con un livello così basso di partecipazione. Anche questo fa parte del gioco. Se vivi in un vortice di cambiamenti ti rimane poca tensione per il comporre così per assurdo cominci a percepire sotto una luce diversa anche i lunghi periodi di routine, di giorni grigi tutti uguali, di arrabbiature, di colleghi dalla mentalità piccolo borghese, di vuoto… di nebbia che sale e che si infittisce e attraverso la quale tutto sommato è necessario cercare di passare senza grosse preoccupazioni. C’è poi un elemento di carattere psicologico molto importante che caratterizza e differenzia il comporre dall’insegnare: quando mi accingo a scrivere tengo allargato al massimo il mio senso di “libertà” che è fondamentale per garantire sincerità assoluta alla composizione mentre viceversa durante il lavoro in classe non posso sostenere questo tipo di atteggiamento molto radicale che finisce inevitabilmente per venire mediato e filtrato dalle variabili comportamentali ed etiche proprie del mondo della scuola. Non penso di esagerare nell’osservare che fra le due attività c’è un certo rapporto schizofrenico nel quale da una parte si evidenzia una costante ricerca di equilibrio ed autocontrollo razionale e dall’altra si punta decisamente verso l’istinto ed un “sentire” più selvaggio, naturale, e diretto.
Col passare degli anni mi sto accorgendo che diventa sempre più difficile separare il mio “sentire” dal “vivere” e che necessariamente il livello di mediazione si fa sempre più debole… pertanto la capacità psicologica di contenimento di “altro” che non corrisponda essenzialmente al mio “mondo” diventa sempre più precaria e con essa anche l’accettazione di tutto ciò che non mi appartiene.
È nato a Sutrio (UD), in Friuli, ed ama definirsi un “hippy carnico”. Affianca all’attività musicale l’attività di insegnante di Musica nelle scuole e la passione per il disco in vinile, partecipando come espositore alle principali fiere del Triveneto. È intervenuto a numerosi festival folk in Friuli e ha all’attivo numerosi concerti. Fra le sue incisioni vanno ricordate, almeno, le seguenti: “Lino Straulino cjante Ermes”, 1997, otto canzoni su testi lirici del poeta secentesco Ermes di Colloredo; “Sintetiche sincretiche sinaptiche”, 1999, in collaborazione con Stefano Montello e il gruppo FLK; “Victor Jara: un puente para la memoria”, 1999, in collaborazione con artisti sudamericani.
14)
Il mio diploma di maestro elementare risale all’anno 1943, in piena guerra: quindi è un diploma che non vale un gran che (Fui promosso, senza esame di Stato, i bombardamenti avevano disperso le commissioni dei docenti).
Tuttavia, dopo anni di giornalismo militante, e dopo aver pubblicato molti racconti e qualche romanzo, ho rimesso piede nelle aule scolastiche nei panni dell’ “oratore”. Il quale doveva trasmettere ai ragazzi – dagli scolari delle elementari ai maturandi – il gusto della buona lettura.
Devo dire che i più attenti, e i più recettivi, sono stati, in genere, i bambini delle scuole elementari, in special modo gli scolari di Molare e di Rapallo.
A Rapallo, addirittura, fui accolto con cori e musiche organizzate dagli stessi ragazzi.
Fu per la presentazione del mio romanzo L’ultimo veliero. I ragazzi avevano ricostruito il porto di Viareggio, i velieri, il faro, e dipinto i personaggi del libro, dai marinai della vela alle suore della casa di riposo.
Ma più salivo in alto, e meno interesse trovavo. In certe classi, invitato per Bandiera bianca a Cefalonia, gli studenti neppure sapevano che l’ Italia era stata in guerra prima contro gli alleati e poi contro i tedeschi.
Insomma, è stata un’esperienza, quella della scuola, bella ma preoccupante. Bella per quanto di spontaneo mi veniva offerto dai più piccoli, preoccupante per quanto di indifferente mi veniva dimostrato dagli studenti delle medie, e più, delle superiori.
Nonostante tutto ritengo che occorra insistere. Riconoscere il merito a quanti si dedicano a questo compito, anche se destinato a fallire.
E sperare che almeno un seme, tra i tanti che cadono nella gramigna, trovi il terreno adatto per germogliare.
(M.V.)
Marcello Venturi è nato in Versilia nel 1925. Richiamato alle armi dalla Repubblica Sociale passò invece nelle file della Resistenza. Scrisse i suoi primi racconti su Il Politecnico di Vittorini. Redattore dell’Unità, prima agli interni e poi capo servizio della cultura, uscì dal partito e dal giornale nel 1956 in seguito ai fatti d’Ungheria. Tra i suoi libri Il treno degli Appennini (nei “Gettoni” einaudiani), Vacanza tedesca, L’ultimo veliero, Bandiera Bianca a Cefalonia, Sdraiati sulla linea. Vive da molti anni nel Monferrato, ai margini dell’ Appennino ligure- piemontese.
15)
Gianni Priano (Genova, 1963) – Poeta straordinariamente ricco, pone i suoi versi su filari che sanno stare alla giusta distanza da terra. Ha fiori bellissimi che si intrufolano ogni tanto fra gli acini maturi, fiori dialettali in una lingua che ha madri diseguali. Insegna da molti anni con il giusto disinganno per le istituzioni, ascolta come sanno fare solo i vegenti ciechi.
Riccardo Vinci (Cosenza, 1965) è un ingegnere elettronico con una doppia vita nel mondo del fumetto americano, come traduttore e giornalista. Ama la musica e la fotografia, alle quali dedica i suoi occhi e il suo cuore. Vive a Roma. E’ stato un alunno impertinente.
Stare con gli adulti, da adulti, è una fatica. Ma è anche un’occasione imperdibile. Tutto quello che imparo sedimenta in me una possibile, e sempre differente, interpretazione del quotidiano. Ma la magia, sono le prospettive del futuro che, quando pensiamo di apprendere, siamo disposti a creder possibili.
Ogni scuola è, in un modo o nell’altro, il passo che non tiene, la dimora accidentale, la vertigine del dialogo.
Bambina nascosta
Nel fitto rumore
Allo specchio degli occhi
Per giardini maldestri
Possessiva adombrata
E la testa rasata
Incontrando i pidocchi
Sui bisogni irrisolti
Ed il vezzo del dire
Che mi nutron paure
Sigarette infilateCome fiori sottili
Fra le dita piagateDi Didone il dolore
Di Francesco il passeggio
Per i campi deserti
Solo il ritmo dei versi
A diciotto metropoli
E le aule affollate
Questa volta si tratta
Di cartine leccate
E visioni tortuose
Per il Mar delle blatte
Se Landolfi mugugna
Mi si stringon le braccia
Ho perduto insegnanti
Che hanno scritto la resa
Della mia frenesia
Di conoscer la spesa
Che mi viene richiesta
Per essere adulta
Senza perder la curva
Della vita caduca
E poi dentro un liceo
Casualmente maestra
Di parole virtuali
Nella pietra riversa
Ed infine per ore
Fra le mura operaie
Dove i bianchi colletti
Fan la festa alle mie
Giocosette scommesse
Con la sorte distolta
Dal museo sindacale
Ed all’anima incapaci rivolte.
*
Ho avuto maestri dalle ali strette
Messaggeri che han fiatato visioni
Compagni con le gambe ritratte
Mi hanno insegnato il passo
Dal quale posso solo cadere
E questo stolto inciampo
Mi appartiene
Rispondi