La malattia dell’Ostrica di Claudio Morici
Il 20 di ottobre, in una Roma calda che pare dire di giugno, siamo andati con l’esposo a vedere Morici, con il suo La malattia dell’ostrica al Parco della Musica. Sala piena, età compresa fra i 30 e gli 80, calore umano superiore alle aspettative così come per il calore del venticello serale. Che bello spettacolo, che incontro pieno di vita, sebbene incroci di continuo, a ogni passo, la domanda su cosa fatti i conti ci aiuti a vivere. Vivere, non tirare avanti. Il pubblico è pieno di nostalgici liceali e ginnasiali di tardo 900, come me e l’esposo, ma anche tanti 30enni e quarantenni, nati quando noi tremavamo per il Rapimento Moro. Lo spettacolo Morici dovrebbe portarlo in Auditorium nelle scuole e nelle facoltà: di lettere, filosofia, matematica. Farebbe bene da morire ai ragazzi e ragazze, e agli insegnanti. Gremito il testo e il vissuto di Morici di ascolto attento di una contemporaneità che grida il suo disagio adolescenziale con autotune , pieno di amore genitoriale per il momento terribile in cui parliamo coi nostri figli dal telefonino e da whatsup dietro porte spesse accuratamente ben chiuse, che ci svela qualcosa che a noi è sconosciuto: loro crescono con pari struggente bellezza a metà fra i pari, a metà in un segreto solitario smarrimento. Più di noi soli, più di noi profondamente isolati. E’ il racconto di un rapporto padre-figlio, è il racconto della potenza dell’atto creativo, è il racconto della letteratura che cura. Tratti deliziosamente ironico-grati sulla presenza novecentesca della psicoanalisi nelle nostre vite, dell’approccio junghiano così s-piazzante. E’ la storia del lavoro creativo fra novecento e millennio nuovo, con le sue trappole incastri, sconvenienze e turbolenze. Ironia intelligente e acutissima su piccoli e grandi editori, sui dati statistici sul disagio mentale, rivisti rivisitati, accarezzati sul corpo testuale e fisico delle grandi figure quasi tutte del 900. Ogni nome un brivido, una visione, un riso amaro e intenerito, una carezza sulla domenica delle salme composta il 30 da Claudio Morici a teatro. Bravo, bravissimo, presenza scenica altissima. Disillusione cauta, un guaito che anche noi, oggi, lasciamo uscire fluire amplificato, echeggiato, reso basso e lungo dall’autotune dell’essere in una fortezza vuota. Sperando di essere rac-colti. Come Bruno Bettelheim, non a caso rivisto mentre scrivo, con la sua busta dolorosa sul capo che reclina piano. Grazie Morici, grazie di cuore.
(ng 2 novembre 2024)




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