Madre che resta, di Patrizia Baglione è forse il più bel libro di poesia che abbia letto in questi mesi.
Pur attingendo a ritmi sacri e ad umori terrestri, ha una intimità struggente, che lascia come storditi e sospesi, quasi a navigare, corporei, i fiati in un dialogo fra la madre che resta e il bambino “perduto”.
Non potrei dire nulla di più, del testo, di quello che scrive, nel giugno 2024 nella splendida postfazione, Francesca del Moro. Rimando a quella per una comprensione anche tecnica dello spessore di questo testo.
Quello che invece voglio restituire a Patrizia è l’impronta visiva lasciata in me da questo suo canto dello smarrimento. Canto nel quale la madre che resta ha visto e ci rende – sottratto, dissolto, sepolto invisibile – il bambino. Il suo bambino.
Ho sentito risuonare due cose, leggendo, le voci del Cantico (di Re Salomone), le voci di Dante( nel V dell’inferno). Canti nei quali solo le voci sono.
Come se madre che resta e bambino, a cui la vita è mancata, si dicessero a noi, a me, aerei e dolenti, eppure pieni d’amore e visioni e profumi di mirra ed henné.
L’ho letto d’un fiato, tre volte, a distanza di giorni, il librino tutto fatto d’amore, tutto rotto d’amore. Senza alcuna curiosità biografica, senza nulla voler comprendere di quanto narrato. Soltanto superare il pudore provato al tema, e potermi perdere nell’ascolto.
Non è facile cantare l’assenza, lo strappo, ed insieme la preziosa e segreta persistenza del sentimento del domani che non c’è, non c’è stato, né rimane.
Brava Patrizia. Oltre ogni ragionevole aspettativa di lettura, mi hai portata dove non si sa né trovarsi né sostare.
Dove spira il canto come spira il vento.
Dov’è spirato il bambino.
(ng, aprile 2025)


(Foto in copertina di Valentina Picco)

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