Il più forte insegnamento degli ultimi mesi è stato per me cominciare a pensare la guerra a prescindere dalle sue ragioni. Provo a spiegarmi meglio. Mentre sulla questione Ucraina, la mia posizione è chiara a me stessa e non ha subito alcuna mutazione di senso (un insensato attacco a uno stato indipendente), quella che era sembrata inizialmente una reazione possibile in Israele mi rendo conto che non solo non doveva trasformarsi nella carneficina di dimensioni intollerabili che ha assunto, ma a conti fatti non doveva nemmeno iniziare con le caratteristiche di reazione che ci sono state.

Il dolore dell’attentato terrificante del 7 ottobre non doveva avere alcuna risposta bellica, invece solo e fortemente la costruzione di una risposta diplomatica a sostegno della espropriazione del potere di Hamas in Palestina. Non c’era modo di andare avanti sul versante deciso da Nethaniau, perché non si risponde al terrorismo con un’altra forma di terrorismo indifferenziato come quello che esprime una guerra che ha cancellato il diritto delle persone. E per sopprimere chi si fa scudo con persone e vite innocenti, non si annientano persone e vite innocenti.

Credo oggi, fortemente, pur comprendendo il desiderio del popolo ebraico di avere la terra di Israele, e la paura conscia e inconscia di un antisemitismo mai sconfitto (come oggi si temono tutte le persecuzioni basate su etnia e cittadinanza in ogni popolo), che si debba guardare a un mondo conservatore e reazionario, di fatto asservito a un potere economico in una economia morente, che in ogni punto del pianeta attecchisce su ed intorno a una economia malata, a un indebolimento dei valori di convivenza e incontro, a una spietata cecità che deriva dalla deprivazione di ogni sentimento di futuro progressivo.

Leggi, indirizzi, politiche economiche, attaccano la libertà e le democrazie in molti luoghi, nei luoghi cruciali. Tutto quello in cui credono i democratici di ogni luogo che hanno combattuto dal 1800 in avanti sembra oggi perdersi nella concretizzazione di panorami surreali, dispotici, inquietanti.

La cronaca gronda sangue e dolore, non solo nei territori di conflitto, ma anche e sopratutto nelle città, nei luoghi del cosiddetto benessere, nelle comunità meno aduse all’odio. Per questo la questione Ucraina è cruciale, ottenere oggi il cessate il fuoco a Gaza è indispensabile, e in entrambi i casi non può essere la messa in discussione di confini e territori a dettare le mosse. In Ucraina non può esserci resa.

Se non torniamo alla logica interna del diritto, e del diritto del nemico, a morire a una vita possibile siamo tutti noi. Non si tratta di essere pessimisti, si tratta di avere quel doloroso realismo che ha la capacità di generare il desiderio vero di ritrovare giustizia.

Come accadde nel confino di Ventotene, come accade quando l’anima emotiva e sentimentale delle persone ha la meglio. Come quando a sfidare i regimi che offendono la libertà e identità femminile sono finalmente non solo le donne.

Ogni diritto acquisito è oggi a rischio, ogni forma di complessità del pensiero è cancellata sotto la scure di bianchi e neri senza alcuna possibile progressiva sfumatura di grigi.

Sarà la speranza a salvarci? Sarà la poesia a pensare il non pensato? Saranno le parole dei profeti e di Gesù a dirsi a noi? Il mondo che avevamo sognato ci è stato tolto da sotto i piedi, e la mia generazione è quella che forse, insieme alle precedenti nel 900, sente con più dolore la perdita.

Speriamo nelle nuovissime generazioni che, se un futuro non lo vedono più, sapranno forse inventare le parole nuove che servono alla vita per tornare ad essere il bene di tutti. La vita in tutte le sue magnifiche e libere espressioni, quella che ci è stata data nel libero arbitrio ma anche e sopratutto nell’amore per l’altro e per se stessi.

Nella terra del disamore non c’è vita per nessuno. Riprendiamoci parole d’amore. E quando guardiamo l’immagine del bambino palestinese, non ci affanniamo a sottolineare lo strazio di Gaza (non ha senso dirlo peggiore di altri). Pensiamo allo strazio di tutte le vite amputate, deprivate, costrette ad essere come non si è.

Affanniamoci a vedere negli occhi del quel bambino tutto l’orrore che stiamo generando, e la perdita di senso che ci porta a dire solo contrapposizione e graduatorie del lutto.

E sopratutto, non dimentichiamo lo strazio delle perdite, immaginando la fierezza di un bisogno di andare avanti. Non vogliamo il merito della sopravvivenza, guardiamo la luce straniata e sperduta per sempre che la fotografa palestinese ha colto.

Quando ho visto per la prima volta la foto, ho avuto una associazione fortissima con la visione della Venere di Milo. La bellezza amputata per sempre, resa impotente alla cosa più bella che si conosca nel regno umano e animale: l’abbraccio.

Non quello che riceviamo, ci sarò sempre qualcuno che, per fortuna, vorrà abbracciare il nostro dolore. No, la mutilazione vera è privare la persona della possibilità di abbracciare, e di esercitare amore.

La vera libertà è solo quella. Poter vivere un esercizio d’amore.

NG, 20 aprile 2025

Lascia un commento