Da un po’ di tempo, quando leggo in seconda o in quarta di copertina che si narra fra le pagine del rapporto con la madre, vengo presa da un fremito di ripulsa. Forse perché ho perso mia madre da soli 3 anni, e questo tempo non risolve la complessità di un rapporto che è stato difficile e intensissimo per 57 anni.
Forse perché mi accorgo che delle madri non sai mai, al massimo declini il tuo vissuto, nella relazione con il loro, e immagini un loro passato (e nel caso della madre biologica di mio figlio, anche un loro presente), che puoi solo fantasticare, e che biologicamente ti esclude dal loro essere state, prima e dopo. Hai di fronte solo un durante che onestamente ad oggi mi satura.
Ma veniamo ai due libri di cui voglio annotare la preziosa importanza di lettura. A due libri e un articolo, scampati alla ripulsa forse perché scritti da due giovani uomini, e dunque in differenza di genere da me.
I due autori che ho qui sul desk, sono Alessandro Chidichimo e Paolo Sortino, entrambi intorno ai quaranta, entrambi autori complessi che in questo anno hanno offerto tre scritti che pongono l’unico quesito possibile in questo tempo che fa tabula rasa delle ipotesi epistemologiche e gnoseologiche care al 900. A loro andrebbe in realtà accostato Giuseppe Genna, la cui opera narrativa e poetica ha in questo tema un cardine fondante.
La domanda che Alessandro Chidichimo e Paolo Sortino declinano in nuove forme di abitazione del vivere è posta, con forza e con delicatezza, ossimoro di uno strappo gentile, a partire da una domanda centrale: come si sta fra la vita e la morte? Come possiamo pensare noi stessi se non pacificati nel compito di ospitare i sentimenti più diversi provati alla nascita e alle separazioni?
Cosa diciamo se diciamo, con Paolo Sortino: “Mia madre è morta e non provo nulla. Nessuna croce da portare. Una crocifissione, a confronto, sarebbe una terapia per le ossa, un toccasana per la schiena. Il vuoto di sentimenti in cui mi sono trovato fa di me un attrattore strano. […] Solo non mi riesce di porla in fondo alla vita. La morte arriva e dispone. Fatti, persone, sensazioni trovano un nuovo ordine. Si accumulano sul mio dorso prendendo la forma delle ali della farfalla ma non volo e non dispero. Non reagisco, non proietto, non reprimo, non rimuovo, non regredisco. I meccanismi difensivi dell’io si attivano quando si crede che la vita sia come appare, e io non lo credo già da tempo, forse non l’ho mai creduto. [… ] Del resto, ogni autobiografia è immaginaria. I fatti dell’infanzia non furono mai. Sono immagini proiettate su uno schermo deformato. L’alcolizzato che osserva attraverso il bicchiere non vede in modo più confuso. Il passato, il futuro sono distorti, tirati da una curvatura di sabbia fusa.”? (Paolo Sortino, Demone custode – Interzona)
Anche “Della morte non puoi parlare, e della gioia”, di Alessandro Chidichimo, uscito circa un anno fa per le éditions dasein, parte da una separazione e si pone accanto ad essa come se la condizione esistenziale unica possibile sia questo interrogarsi fra presenza assenza, fra la gioia e lo stupore, fra la presenza e l’assenza, con l’unica salvaguardia dell’”essere gettati”, qualificato ai nostri occhi dalla intensità di alcuni sentimenti essenziali.
La nascita e la morte, desiderate, temute, introiettate, allontanate, celebrate. Il silenzio assordante delle prime pagine di Demone Custode di Sortino, la cinestesica perseverante inclusione dei fiori e della pioggia nei testi di Alessandro Chidichimo,
Come ne La Strada di Cormac McCarty la connessione, disumana e umanissima, a un “tema”, connessione che proviamo se pensiamo e allochiamo la morte nella nostra vita, nelle vite, checi radica e forse ci sradica nella possibile salvaguardia (non mentita né santificata, piuttosto avvertita a pelle e ragionata in un diluvio sentimentale) di un’àncora amorosa, di un ancóra che ci fa essere padri (non a caso il materno è un’altra storia).
Alessandro Chidichimo scrive:
46. «Non sono freddo, quello che tu senti è il mio lutto che mette della distanza da tutto. Così quello che senti è questa distanza. Non i miei sentimenti, ma solo la distanza.»]
49. Non vedo perché la morte non dovrebbe essere un problema socialista.
59. Adesso,
il mio corpo è vuoto.
La mia mente è vuota.
Le mie gambe sono vuote.
I miei pensieri sono vuoti.
I miei piedi, le mie mani sono vuote.
I miei desideri sono vuoti: non desidero niente, non conosco il
desiderio.
Le mie braccia sono vuote.
La mia volontà è vuota: non voglio niente, la volontà non esiste.
Le mie spalle e il mio petto sono vuoti.
Il mio ventre è vuoto: non sento niente, il niente non esiste.
I miei polmoni, il mio cuore sono vuoti: non c’è aria, non c’è
sangue che scorre dentro me.
Io sono vuoto, non c’è niente e niente sono.
E sono pronto, adesso sono pronto.
Adesso che non sono niente, non voglio, non sento, non penso a niente,
che sono vuoto,
che non esisto, che le mie mani, le braccia, le gambe sono vuote,
adesso e solo adesso sono pronto.
Come stare di fronte a tutto questo, mentre persino il mondo esprime il suo lutto collettivo, la cancellazione della madre terra come ipotesi salvifica, lo svuotamento della misura della morte nelle soggettività per restituirla all’anonimato delle parole guerra, sterminio, distruzione di massa?
Ed ecco che Alessandro Chidichimo ritorna a dire, nel suo articolo uscito da poche settimane su Formazione e Cambiamento, Noi e l’intelligenza artificiale, o dei prompts per gli esseri umani:
“Gli esseri umani sono fatti in modo tale che a un certo punto muoiono:
l’intelligenza artificiale può salvarci dalla morte e che la morte non esista più?
Che cos’è la morte?
L’intelligenza artificiale può sostituirsi alla morte?
Tutti abbiamo un passato, e a volte nel passato ci sono tragedie, tristezze, dolore: l’intelligenza artificiale può riparare il nostro passato?
Come dimenticare e come capire il passato?
E il presente?
L’intelligenza artificiale può aiutarci a perdonare gli altri e noi stessi?
Come si fa a perdonare?
Che cos’è il perdono?
Abbiamo dei sentimenti che possono travolgerci e non sappiamo cosa fare:
l’intelligenza artificiale può aiutarci a capire i nostri sentimenti?
Cosa vuol dire sentire?
E cosa può fare per chi non riesce più a sentire niente? […]
Cosa sappiamo della nostra vita, di tutte le informazioni che abbiamo visto, letto, le parole ascoltate, le braccia che ci hanno abbracciato, i baci, le risate, le passeggiate, i tramonti e le albe, la pioggia: potrebbe l’intelligenza artificiale tenere tutto insieme perché sia sempre presente per noi e la disperazione non ci prenda mai più?
Perché possiamo essere disperati?
C’è un problema di gioia negli esseri umani: può l’intelligenza artificiale trovare una soluzione per la gioia di tutti?
Che cos’è la gioia?
Che cos’è il coraggio, come facciamo ad averne
e l’intelligenza artificiale ci può aiutare quando ne abbiamo bisogno?
Perché serve del coraggio?“
Ecco, tornando al tema, cosa ci muove ad annotare, a leggere, a condividere? Nel delirio autobiografico della letteratura di questo tempo, provare a dire qualcosa che non descrive se stessi, ma quello che “accade”, come “si accade” in questo tempo.
La bellezza della ricerca di Paolo Sortino, di Alessandro Chidichimo e, torno a dire, di Giuseppe Genna, è che non ha alcuna importanza se davvero Fiammetta sia nata, se davvero siano morti i genitori di Alessandro, come siano queste madri e padri. Sono stati dati alla pagina come qualcosa di offerto perché possiamo capire che non c’è possibile pensiero sulla vita che prescinda dal rispetto del vuoto dell’amore, e delle occorrenze che procrastina nel bisogno che abbiamo di amare, consolidare anse nella quali ci si possa posare, persone sapendole aggreditili nella condizione umana.
Sono tre letture che sono felice di ave fatto, in attesa che dopo l’estate Einaudi ci regali un nuovo lavoro di Paolo Sortino, e che Alessandro continui a dire nella specifica forma della poesia, e del poemetto, in prosa, che così gli è congeniale.
E Giuseppe Genna, come ci accompagnerà nel dolore trafitto di questo tempo che viene?
Spero che siano per molti di noi letture scomode ed accudenti, a un tempo. La bella estate ci reclama attenti, e non da soli.
(ng. 11 giugno 2025)












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