Ho letto con molta emozione l’ultimo lavoro di @PaoloMilone. Con la delicattezza disincanta e complice che lo caratterizza (per questo ho molto amato il suo L’arte di legare) lo psichiatra genovese ci inoltra in quello stato della mente, e del corpo, che viene ascritto alla categoria dei crolli psicotici. Ne descrive con affettuoso pudore e lucida cognizione di rischio l’insorgenza e i possibili percorsi evolutivi o involutivi, che segnano il ritrovarsi su una strada non condivisa o infine in una sorta di “fortezza vuota” (usando qui con azzardo una metafora di Bettelheim che si applica ad altro, in fattispecie alle forme di pensiero autistico).

Ci accompagna su un sentiero di comprensione che allerta, che deve in un certo senso istruirci anche su come non sia distante da nessuno un “sentirsi” sì fatto, e di cosa serva per proteggerci e proteggere.

A questa lettura si è accompagnata la sensazione che il post covid e l’immersione nel pensiero della guerra, e dunque della finitudine e della morte, possano aver generato, in molti di noi una sensazione di straniamento, trasferendoci dalla dimensione sana fatta di passato, presente e futuro, a quella indeterminata di un non riconoscere, muovendoci, spazio, tempo, relazioni. Un luogo che scopriamo carico di insidie, di disconoscimento e di afona esternazione del dolore che proviamo.

Se utilizzo il libro di Milone come metafora d’una condizione epocale, sovra-personale pur essendo stretta nel confine del corpo delle nostre individualità, ecco allora che intravedo due andamenti stinti dell’essere e del fare (anche infine nel welfare).

La prima ci co-stringe nella ricerca individuale di un sostegno, di un luogo di ascolto possibile che dipani la matassa dei nostri silenzi, e dia voce al grido, la seconda capace di riconoscere questa forma di disagio e di accostare ad esso luoghi e tempi di prossimità accudente, non tanto di cura quanto di accoglienza non giudicante eppure capace di ridare fiato e respiro. Un ritmo vitale che possa riabitare il pensiero del presente, del passato e del futuro.

Siamo generazioni di uomini e di donne che avevano sperato la pace e subiscono la guerra, che avevano pensato le comunità e si trovano nella gregaria solitudine del capitalismo peggiore, che progettavano welfare ed oggi si trovano fuori dalle porte di una assistenza sanitaria sempre meno pubblica e gratuita.

Siamo aggrediti da pensieri reazionari che aggrediscono il pensiero laterale, la creatività, e persino la bellezza del non ordinario, del non “normale”.

Siamo aggrediti dalla norma e osteggiati nell’identità. Non solo non siamo “uguali” di fronte al mondo, non siamo nemmeno prossimi ad uguali diritti. Nel malessere ancora meno che nel benessere apparente.

Scrive Milone:

“[il crollo psicotico] Improvvisamente, rende una persona estranea, sconosciuta. La rende sconosciuta a chi le vuole bene. La rende estranea anche a sé stessa. E contagia, sia pure in modo infinitamente minore, chi la avvicina, in un’aura di apprensione e paura. Perché parlarne?” E ancora: “Da questa esperienza in cui si diventa stranieri a sé stessi e agli altri residua un lungo strascico di dolore e paura. Se la psicosi si prolunga per mesi, o anni, si entra in un altro campo, quello della psicosi cronica, dove cambiano le regole, perché è una cicatrizzazione della mente, con modalità deliranti e allucinatorie che è difficile risolvere. Nella cultura generale, e specie in Italia, è un evento poco considerato, quasi non esiste. […] Parlarne e saperne di piú è tendere una rete di salvataggio a chi precipita in questo vuoto. Per farlo vanno affrontate, o almeno avvicinate, questioni primarie: come funziona la mente? come avvengono le sue catastrofi? come si cura una piccola fine del mondo?”

“La vita funziona bene quando è automatica: appena ci accorgiamo di lei ce ne allontaniamo. Piú ci pensi, piú cerchi di afferrarla, piú ti sfugge.
Ma è anche vero che molte persone vivono una vita intera con scarsissima consapevolezza di esistere, non perché stiano bene, ma perché sono lontanissime da questo sentire. […] Dunque il problema attuale vero che dovremmo affrontare non è se l’intelligenza artificiale riuscirà mai a raggiungere l’autoconsapevolezza, ma se noi riusciamo davvero a raggiungerla – e a sopportarla – nel breve tempo che è la nostra vita.”

“Ritenere che la coscienza, il pensiero, e tutta l’attività mentale non si ammalino mai è come dire che dipendono da qualcosa di incorruttibile, non biologico, puro, spirituale, eterno. Come l’anima. O qualcosa di simile. C’è chi si sente di sostenere tale ipotesi?
Qual è il luogo dell’anima? […] Il tema dell’anima, e della spiritualità, può sembrare fuori luogo in un contesto scientifico, seppure con un’impronta narrativa, ma non è cosí: […] un clinico non può eludere la questione dell’anima con un sorriso di sufficienza. Moltissimi pazienti si interrogano su tale questione, per anni. Cercano nello spirituale un aiuto che talvolta trovano, talvolta no. Cercano qualcosa in loro che persista, qualcosa di superiore, anche divino, che resti puro, incontaminato, e sopravviva al dolore. Qualcosa che sia oltre. Se non abbiamo rispetto per questo, per cosa l’abbiamo?

Ora, dunque, se il tempo che viviamo mina l’umore, che come scrive Milone è il motore di un possibile benessere, se non riconosciamo l’idea di presente e di futuro in cui avevamo sperato, se ci chiudiamo in tanti isolamenti e prossimità parziali, cosa potrà farci riconquistare il senso di noi stessi, l’equilibro del nostro esistere?

Cosa ci salverà da questa piccola fine del mondo che ha bisogno di essere detta, riconosciuta e accompagnata?

In questi giorni leggo moltissime recensioni piene di entusiasmo per “Sbilico”, l’ultimo lavoro letterario di @AlcidePierantozzi, e sono meritate, libro intensissimo scritto magistralmente. Accanto all’apprezzamento per il libro metto anche questo: non siamo forse alla ricerca di chi la nostra piccola fine del mondo riesce a dire, a narrare, ad elaborare in qualcosa d’altro che non la nostra paura, spesso afona e implosa?

Pierantozzi scrive: “Piano d’attacco. Il medico mi mette sempre in guardia dall’euforia acuta, devo imparare ad aspettare, accettare la gattabuia del tempo. Ma io consisto al presente, caro dottore, io vivo in absurdum, per me è una violenza sopportare l’insopportabile Qui e l’insopportabile Adesso.”

e ancora:

“La scrittura, per me, non è un progetto di salvezza. Tutt’altro.
Io un progetto di salvezza non ce l’ho. Io vivo un passetto alla volta, una riga alla volta, resisto un’ora alla volta, vado da A a B.
I giorni non mi garantiscono piú niente e io stesso non mi autogarantisco che piccolissimi obiettivi per andare avanti. La scrittura a mano riesce ad arginare i pensieri per il tempo della frase. Lascio al futuro la libertà di fare progetti su di me.”

Se così è siamo un passo avanti, perché possiamo almeno desiderare, amando un libro, di venirne fuori con l’aiuto di una voce più onestamente consapevole e arsa della nostra.

Leggiamoli entrambi con cura, rispetto e affetto, sia il libro di Milone che il romanzo di Pierantozzi. Non può che farci del bene. Nei limiti del possibile di questo tempo. Nonostante l’adesso.

(ng, 8 luglio 2025)

Lascia un commento