Il tristissimo delitto di genere, che ha visto vittima la giovanissima Sara, ripropone anche oggi, come ieri e come ogni giorno, la terribile realtà di un mondo in cui alle donne, con violenza viene sottratto il diritto a essere se stesse, nella piena determinazione di sé, in quanto donne, ovvero in quanto soggetto funzionale a una organizzazione maschile del mondo che relega il femminile a un ruolo subalterno. Questo nel lavoro, nella vita, e persino nel “pensiero” e nell’arte. La nostra cultura, anche quella più illuminata, decide per le donne e “incide” il corpo della donna. Ma, accanto a questo, l’insistenza sociale sulla paura che ha impedito che chi ha visto agisse o intervenisse quanto meno chiamando soccorso, rinvia a un secondo problema, di portata altrettanto atroce. In questo universo abitativo che sono le città, ogni vittima è sola. Ogni persona è sola con la propria paura. Nessuno è al sicuro. E quel che è peggio, è che la soluzione sembra essere la costruzione di un presidio armato, di una emergenza di forza pubblica invocata. Non siamo capaci di lavorare su un pensiero e un sentimento solidale, sappiamo solo invocare maggiore forza, maggiore sorveglianza. Ho una commozione profonda per la ragazza uccisa, in modo atroce, ma anche rispetto per la paura. Non è facile trovarsi per strada di fronte a qualcosa, che si sente essere orribile, e fermarsi. Certo, occorre che la paura si trasformi in azione (la richiesta di un soccorso che si vuole e deve essere immediato), ma fa parte di una logica del capro espiatorio accanirsi su chi non si è fermato, ed ha smarrito il sentimento del soccorso. Credo si debba e si possa agire per dare senso a una comunità di soggetti che devono percepire la strada come luogo comune, abitato dal desiderio di prossimità e non derubato da ogni convivenza. E’ sulla cultura della persona che esprimiamo che dobbiamo riflettere, ed è su questo che possiamo agire. Non è una società di polizia che garantisce la libertà e la pace, ma una società capace di agire e sentire il bene. Che non diventi, questo ennesimo femminicidio, il pretesto per chiedere di costruire prigioni persino per i sentimenti. Le donne, e gli uomini hanno diritto ad essere comunità.
38 testimoni del nostro mancare a noi stessi
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6 risposte a “38 testimoni del nostro mancare a noi stessi”
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Mi sono permesso di ribloggarlo da me perchè un’analisi così profonda e fuori dalle solite prospettive, per ora, è l’unica cosa che mi fa smaltire in parte lo schifo dell’essere un umano di genere maschile.
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Ti ringrazio di cuore
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Le donne, e gli uomini hanno diritto ad essere comunità. Esatto..ed è tutto da ri-costruire.
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grazie–
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Il posto dove l’agguato è avvenuto è decisamente un posto non raccomandabile e io non mi sarei fermata, lo ammetto, però avrei fatto immediatamente una telefonata d’emergenza, come già mi è capitato di fare diverse volte, anche in presenza di “semplici discussioni” ad alta potenzialità degenerante.
Passare dimenticando in un secondo non ha giustificazioni, nemmeno in questo caso, dove nel tempo di una telefonata d’allerta non si sarebbe riusciti a salvare Sara, ma queste valutazioni sono del tutto inutili. È la città che è marcia nel profondo, io ci vivo.
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