Elle, di Paul Verhoeven (2016), non poteva che esser cucito a pelle sul viso e il corpo di Isabelle Huppert, forse l’attrice vivente più vicina al portare su di sé la bellezza del tempo passato e futuro senza curarsi del presente. Accanto a lei mi vengono alla mente soltanto le francesi Deneuve e Ardant. Il film, che è stato presentato in concorso al Festival di Cannes 2016, è un adattamento cinematografico del romanzo del 2012 “Oh…” di Philippe Djian (autore anche di “37°2 al mattino, Betty Blue”). Vederlo, in giorni contraddistinti dal martellare mediatico su cronaca e disastri di una strategia della tensione più dura che mai, è stato benefico, salvifico. Il film ha al suo interno una attenzione costante al potere, anche benefico, delle ambivalenze, la capacità di salvaguardare equilibrio e benessere in mezzo al guado sapendo scendere nella relazione stretta che fra bene e male, attrito e carezza, colpa e abuso, senza sconti a nessuno, se non alla capacità individuale di sopravvivere, infine, anche potendo curare, restituire una dignità a se stessi e all’altro in qualsiasi difficile estremo ci si trovi. Fa bene il cinema alla nostra ormai sterile tendenza a tagliare con l’accetta invece che a segnare ogni più piccola e in sé preziosa sfumatura.
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