Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film del 2017 scritto e diretto dall’irlandese Martin McDonagh. Una sfinita dolcezza avvolge da sotto, e culla (nella ferocia del dolore l’insensatezza dell’odio, la necessaria vendetta e la speranza che sani) per intero il film. Dialoghi irlandesi che si fanno americani, che rinviano ad Egoyan e risalgono McCarty.

La potenza delle domande, dirette e cruciali, e la sintesi foto/grafica che incide le frasi sono humus e senso dei manifesti che danno titolo al film. E che introducono nell’immobilismo di un oggi in cui ciascuno è accanto-nato la forza dirompente del sentire davvero.

Sono domande che dis-velano il vero, una azione di coaching su un’impotenza indolente che offende la memoria di una perdita atroce. In visone notturna un amico ha scritto, dopo aver visto il film, è magnifico. E l’aggettivo è potente. Una piccola donna rende grande la potenza del dolore che erode inascoltato e irrisolto (magnus facĕre) e lo trasforma in occasione di re-visione esistenziale.

Ogni oggi diviene necessariamente espressivo, e reclama e impone una revisione del sé, del qui. Del domani e dell’ora. Come un dolce domani una pastorale americana ci porta dove qualcosa esplode (la rabbia, la casa, la carta che brucia), e diventa occasione per ridare rigore ed, infine, soltanto infine, abbracciare e abbracciarsi.

Un bellissima occasione di pensiero sull’autentico, di sguardo attento sull’amore. Se qualcuno ci narra, noi davvero esistiamo. Imperdibile, e davvero magnifico.

Ogni volto nominato davvero.

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