«C’è un tempo e un luogo perché qualsiasi cosa abbia principio e fine…» (Miranda)

La lettura di “Viaggio al monte analogo – Monte Cocuzzo. La Montagna Arca”, di Mauro Francesco Minervino è una esperienza fortemente cinestesica, prima che visiva. Sebbene in avvio alla narrazione ci sia una ricca e puntuale serie fotografica ad accompagnarci nell’incontro col monte, quella che ci viene incontro nella lettura è una rete di sensazioni e percezioni, a pelle e interiori, che lasciano la vista secondaria e ci sopravanzano per potenza materica. Il vento, le pietre, la natura ferita, l’arcaica solitudine elitaria del monte, costruiscono la nostra ascesa ed una ipotesi di rifugio.

Il monte analogo, prima di esserlo per le ragioni che porta la narrazione di Minervino, è sopratutto un’offerta indiretta di individuazione della nostra arca, e del nostro monte. Del luogo che si fa riferimento arduo a percorrersi ma saldamente presente nelle vite di ciascun* di noi ogni qual volta ci sia la traccia del ritorno, a dirci di noi stess* e di una separatezza che sta in cima, solitaria e identificata, nonostante il nostro perderci.

Sono stata sul monte analogo solo due volte nella mia vita. La prima, con due amici del mio tempo adolescente. Ricordo che uno di noi insegnò alle altre due che occorreva coprirsi con fogli di giornale sotto le maglie, perché il vento era fortissimo, e l’aria si vestiva di gelo. Penso che allora ci fossero aquilotti a mostrarsi in volo, se si era fortunati.

La seconda volta sono tornata lì con Riccardo, ci eravamo innamorati da poco, e il Monte era una delle mete che nelle esperienze esistenziali si doveva scoprire. Un lungo e difficile tratto a piedi, oltre l’ultimo punto dove puoi lasciare la macchina.

Credo di aver risentito, leggendo il libro di Minervino, esattamente quella magia che contraddice i rumori e gli odori sia pur belli di sotto, e dichiara qualcosa che sconfina e ti fa sconfinare. Forse, in un certo senso, l’umanissima saudade per il volo. Il volo alato degli aquilotti. E una sfinita solitudine alla quale ti emoziona accostare la condivisione se la risalita non è “sola”. 

Ho provato, leggendo, quel tipo di emozione che provi a vedere le immagini di Picnic a Hanging Rock, e quel monte lo sai che si deve risalire e non dipingere. Le variazioni di senso non possono che essere nel rifarne la strada, riassaporarne l’asperità inesausta, piuttosto che nel vederla all’orizzonte. Un monte analogo alla ricerca di senso, uno dei luoghi di buon cammino, una vetta che ti taglia piuttosto che stagliarsi.

Nel libro c’è moltissimo d’altro, Notazioni storiche, geologiche, geografica, socio-abitative. Tracce orografiche, strapiombi e specchi d’Acheronte. Val la pena entrarci, sostare e ripercorrerlo una seconda volta. 

La mia restituzione di lettura non può che essere intimamente legata all’esperienza esistenziale del Monte Cocuzzo, gnoseologica, e infine sacra. La nostalgia del volo, dividere con altri la vetta, perché al Monte non si sia soli. Come diceva <Miranda nel film di Peter Weir, «C’è un tempo e un luogo perché qualsiasi cosa abbia principio e fine…».

Mi chiedo se mai qualcuno, da lì, abbia spiccato il volo, ritrovandosi.

Il libro è per Oligo Editore, col quale solo mi dolgo per le foto, ma è tema di tutte i furbi non fotografici, il sacrificio parziale delle immagini. Quelle sotto le mie più amate.

Roma, 6 febbraio 2024


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