al termine di una lunga terapia analitica
si ha l’impressione che si sia trattato,

in qualche modo,

di un lunghissimo sogno,
dimorato nella quiete burrascosa di una stanza,
strutturalmente chiamata a tenere

(quale che sia l’entropia generata
dal lavorio dei due pazienti alleati)

riconoscere il limite proprio,
e dell’altro, è la conferma
che finalmente si è pronti
ad aprire la porta.
E che dentro, in assenza nostra,
per la parte di spazio generata per noi,
non c’è nulla che rimanga

(o che rimanga intrappolato)
(e che va bene così)


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