Leggo lungo e d’un fiato, da due notti, “I destini partecipati” di Filippo Davoli (ed. La vita felice, Milano, 2013).
Attendevo l’uscita di questa raccolta. Ed è da un po’ che quest’attesa, dei versi di Filippo, mi accade. Da quando lessi, son cinque gli anni, i suoi “Incendi”, con quelle loro infinite risonanze e ricordanze che ritornano ora, in chiave nuova, come in quella Casa di vacanze che è in qualche modo, nella raccolta, un argine per tempo.
Nessuno ha più i vent’anni, grazie a Dio. Eppure i venti ci son tutti, dentro.
E’ una frequentazione, quella dei versi di Filippo, che si nutre, in qualche modo, all’esperienza autentica di una parola che nella sfera intima dell’esistenza è pronta ad essere [ad un tempo] univoca e assoluta. Eppure anche, misteriosamente, contenuta in duplice, persino poi molteplice, esperienza.
In vita e in morte, come mi sembra suggerire uno dei rivoli di sentimento di questo libro che è un diario, che il filo della grazia mai non strappa. Ma anche, contenitore doloroso e periferico della malinconia e del verso che riecheggia, ombra del Marchigiano del paese lì vicino.
La raccolta è ricchissima e, quietamente e intensamente, passa e attraversa. Si va dalla piscina al pomeriggio, dove “è cosa da uomini essere cauti/e lasciar correre il mondo”, alle parole Madre e Madri. Madre che si moltiplica, riverbera, confonde e illumina, nel segno di Maria, che da Lei torna fragilissima in quella culla nominale che sono quei tre versi così intimi da stringere, che la socchiudono terrena, umana, e nominata:
Emilia,
così la chiamo con un nome non suo
perché nessuno la rubi.
Ed è un dialogo continuo, che ci attraversa di relazioni e antichi amori, prossimità territoriali e, in qualche luogo che è altrove, persino porta lo spavento del luogo, dove “tutta la piazza è una melma di fiori”.
Ci sono nomi e diari che narrano d’incontro, le belle Marche ed i poeti più giovani che vivon fuori. Ci sono case e presenze. E una costanza che qui si vuole antica, continua e inesausta, fatta di lingua, e di memoria.
E c’è persino, ridetta, una preghiera, che nelle pagine scorre le vene, com’io di notte ho fatto scorrere i versi, in silenziosa lettura.
Ed una consistenza interna, nella ricerca di Filippo Davoli, poeta, che consola le assenze ma con i piedi ben in terra, perché la terra scorre bassa (e si sa). E la lingua, che sa farsi silenzio diverso, si alza netta di sguardo.
(N.G., Roma, 8 novembre 2013)