A un anno dall’abdicazione di Benedetto XVI, ho ill desiderio di ri- condividere qui il testo scritto la sera successiva, pensando a questo atto di intelligenza e assunzione di responsabilità che mi aveva molto colpita, commentato, a un anno di distanza, da una annotazione che ho condiviso nella comunità cristiana che mi accoglie.
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La costruzione del dialogo è un atto d’amore al servizio del Bene
(Nerina Garofalo, 16 gennaio 2014)
Nel pensiero e nel sentimento della comunità cattolica quest’anno appena trascorso è stato segnato da due eventi inaspettatamente sorprendenti: l’abdicazione di Papa Benedetto XVI (giunta in un momento di forte turbolenza politica e sociale, che reclamava una presenza attiva della Chiesa a tutela del messaggio cristiano, e che poneva al Pontefice una domanda sulle energie necessarie alla vicinanza attiva), e l’Elezione di Papa Francesco.
La domanda che ha mosso Benedetto XVI a chiamare a raccolta le forze della chiesa ne poneva un’altra, conseguente, sui linguaggi necessari a scalfire un pregiudizio sedimentatosi nel mondo laico e agnostico. Un pre-giudizio verso una Chiesa impegnata sul versante della dottrina e della sua stessa salvaguardia, più che nella presenza fra i quesiti e le interrogazioni (nel senso religioso e civile del termine) che la comunità cattolica di base poneva e pone con sempre più forte insistenza.
La comunità di base, e con essa tutto un mondo che si confronta con la convivenza nei cambiamenti sociali, ha aperto nell’ultimo decennio interrogativi forti su temi che fondano la sopravvivenza della comunità civile e di quella cristiana.
Un domandare che parte dal tema della dignità dell’uomo (intaccata per sempre dalla Shoah, colpevole anche di aver permesso e legittimato la negazione dell’umano non soltanto verso il popolo ebraico), e della “pace” come occasione di sviluppo e di crescita, per arrivare a confrontarsi con l’attuale declino di tutte le forme di progresso sociale fino ad oggi proposte dalla cultura occidentale e duramente messe in crisi da una internazionalizzazione senza dialogo.
Così dunque l’accesso al lavoro, la dignità nel lavoro, il rispetto della persona, la comprensione della necessità di uno stato laico e democratico, le politiche dell’accesso, la cultura dei minori come risorsa e della produttività come sinonimo dell’esistenza qualificata e non della produttività economica, sono diventati temi inaccessibili per una società che possiamo definire non in declino ma infine morente. Una società suicida che perpetra la negazione per determinare oligarchie, e che disimpara le parole piuttosto che generare nuovi linguaggi.
In tutto questo, l’elezione di Papa Francesco, con il suo portato di creatività, umanità, capacità di ascolto e consapevolezza dei limiti del reale, ha come aperto un varco nel buio delle biblioteche, lasciando che le pagine, e le parole, e con essa “La” Parola riprendessero terreno mettendosi in gioco fra le domande a cui le comunità, sia agnostiche che di fede, non sanno più bene come e cosa rispondere.
Senza nessun atto ad oggi interpretabile nella distanza dalla interpretazione teologica del suo Predecessore, questo Papa ha costruito però la sostanziale area fertile da tutti ricercata, nella qual seminare le domande e poter far crescere le risposte, che sono, in questo tempo, innanzi tutto risposte di ascolto e con-vivenza, a partire dal recupero delle parole comuni a chi vive nella fede e a chi la fede guarda da una distanza, ma con il desiderio di non esclusione pregiudiziale.
La domanda sulla fede è una domanda sul senso delle nostre vite, e questa stessa domanda abita e cresce anche in chi la fede non incontra. Le risposte possono essere del tutto differenti, ma è la dignità della domanda che la Parola di Dio per prima accoglie con la rappresentazione di sé incarnata nella vita del Figlio.
Ed a questa domanda, Papa Francesco parla quasi rispondendo prima a una comunità “extra-parlamentare” ed esogena.
Nel pieno compito dato dal Padre, è a chi non ha incontrato che per primo rivolge l’ascolto, disseminando il suo cammino episcopale della tenerezza che ha luogo sempre in primo luogo fra chi domanda senza sperare che la risposta arrivi.
E lo fa con grande concretezza riprendendo i luoghi missionari dell’esistenza della Chiesa, che non hanno altrove. I luoghi del dialogo con chi interroga sul diritto alla vita e sul diritto alla morte, sulle forme della maternità, della paternità, del matrimonio. Sulle concretizzazioni politiche di una umana coesistenza, basata sulla sconfitta della povertà, della solitudine e del disaggio.
Lo fa nella vicinanza piena di Pietas che lo fa simile a Enea, quando accoglie il fardello di una domanda di insistenza terrena, di sradicamento delle consolidate forme di risposta verticale, e riapre il versante di un dialogo profondo, in cui non possiamo dire che la Chiesa sta trasformando il suo messaggio di fede e la sua epistemologia, ma per certo sentiamo che sta dialogando in modo fertile , fruttuoso e genitoriale, per la costruzione di un confronto e di una coesistenza.
Andando a recuperare le parole “comuni” che restituiscono all’uomo e alla donna la propria dignità sentimentale anche nella distanza dai comandamenti di fede, colmando la distanza fra comandamento e convincimento con l’uso per nulla retorico della parola amore. E della sua intrinseca e disperante tenerezza.
Perché l’amore, in terra non ci salva dal dolore, ma ci fa migliori. E perché è questo amore che restituisce nella fede il sentimento di dignitosa presenza nel mondo al servizio del bene di tutti, rispettando ciascuno.
E loro dicono che la finestra è accesa
mentre parlano, che io non dormo.
Invece dormo, o almeno tento. Stento.
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E mi rigiro fra le lenzuola bianche in lino,
che hanno l’odore di quelle che mia madre,
ed il colore della camicia stesa ad asciugare.
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E mi tormenta questo nugoletto d’ossa,
questo sudore che m’imperla, nei giorni
della merla. Fa così caldo, qui, questo torpore.
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Ma non mi sembra vero che ti vedo, che il
biondo candido della tua ciocca si fa via
per mano che si porta agli occhi. Fatti guardare.
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Ero come un bambino, quando ho iniziato
a risalire, il fiume. E il fiume si faceva solido a ogni
passo, era un sentiero, che traversava un bosco.
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Ero così felice quando ho lasciato a casa la
giacchetta, e mi sono messo a ricercare.
Come ci si rimette a Dio, quando ci incalza.
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Ed era così notte, ogni mia notte, passata con
i gomiti alla tavola a studiare. A far quadrare
il cerchio, l’anello, oggi il girone dell’Inferno.
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Ed ero già dimentico, atterrito, per tutto quel
clamore e clanghete di ossa. Per quello sterminato
campo che accoglieva il mietitore. Ma io mietevo altrove.
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E non ho smesso mai, di mietere e cercare. Per ritornare
a te, Signore d’occhi muti alla bisogna, forse solo se sogna
ti vede il pellegrino. Ed io ti vedo. Stanotte qui stravedo.
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Oggi ti colgo intero, oggi ti sento, oggi tu mi conosci.
Son stanco di portare addosso gli occhi. Li metto
qui da parte. Che possano sanarsi. Un dono dell’inverno.
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Son stato immemore e gioioso, con quel tuo rosso fuoco
tutto addosso. Un re beato nel reame a dire, guardare anche
la neve che va a prendere a carezze ogni sfinire. Oggi sfinisco
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io, e questo no, non lo so sopportare. Ma lo so dire, lo posso
riparare. Devi insegnarmi ad esserlo e pensarlo, che mi stacco.
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Dammi la forza della foglia antica che dall’oro muove,
mettimi le babbucce, che voglio solo un pochino riposare.
(n.g. 12/2/2913)