Shiai e Ai, di Lamberto Garzia (Effigie, 2014) è un poema amoroso che si legge per immersione. Se dalla dimensione dimorata del tatami passiamo alla cinestesia che i versi producono in lettura, è questa l’esperienza di prossimità, in separazione rispettosa, che ci resta. Addosso.
C’è come un compromesso di lettura che porta a stare approssimati a quello shoji, a quella leggerezza che separa e che protegge, come per tratti il sogno il sonno, eppure esterni, complici in visione, persino un po’ segnati dagli umori e dai sudori e dagli odori.
È un libro bianco, un fiore di ciliegio. Ci son voluti alcuni mesi perché volessi che la lettura fosse colma, ed in deriva dove tutto poi sfinisce, perché davvero raramente ho ritrovato così integra la trama di una seta mossa al vento. È stato come fosse un canto in movimento, un mimo di ansimi e sussurri, con gorgoglii, e imprevedibili silenzi.
Ti resta dentro qualche cosa che soltanto pochissime strutture hanno per sempre. Qualcosa come il volo di Francesca, che ti tiene lì, e rigiri, o in tempi di fine ‘900, le Quartine di Valduga.
Ed è istruttivo e ti addomestica, quell’uso a cui costringe la distanza dalla lingua del glossario, per farti ritrovare intatta una naturalezza, struggente e potentissima, in questa lingua doppia che sa ridirsi una, pur mantenendo ogni precisa sfumatura di distanza.
È come se noi avessimo la stretta di potenza che toccava Oshima, e che però lì stava un po’ contaminata al mondo, e la vedessimo salire, risalire, ridiscendere, guaire, addormentarsi, sfiorire, incenerirsi e ricomporsi in fiore, fino a ridire di una stretta che matura, rende liberi, si infiora.
Andrebbe reso testo a scelta nei licei, questo poema, per la potenza e la corretta dimensione dell’amore che ci consegna e di cui ha cura. E leggerlo trafigge un po’, ci intaglia una misura: dei versi, dei silenzi, dei rumori che si sentono frusciare, sotto.
Come se fosse un segno nel ciliegio ancora non piantato nel grembo del combattimento.
Rischioso dire, di un libro come questo. Che per delicatezza ha qualche porta chiusa, nonostante lo si rilegga ancora, e adesso.
Ma anche, peccato che non passi, e non la si sussurri, questa sua perfezione apertamente stretta, come si fa per voce clandestina, un mugolio da dietro un paravento trasparente. Sarebbe questo, il modo giusto, per questo testo così intenso.
(Nerina Garofalo, agosto 2014)