Calvary, di John Michael McDonagh (per la visione del quale devo ringraziare Renata che lo segnalava ieri), è indubbiamente un film di Natale. Sebbene possa sembrare un film sulla Pasqua, sul sacrificio e sulla persecuzione, in realtà è un film durissimo e allo stesso tempo di grandissima grazia sul perdono, sulla vicinanza, sull’assunzione di senso, e sul destino di fede. Non ho letto nel film alcuna retorica, e lo spaccato irlandese è feroce e inquietante. Il vento e le onde arrivano a toccare persino l’anima, guardandole. Credo che solo Malik, Inarritu e Von Triers raggiungano queste vette di prossimità al centro vuoto della Domanda, dove l’alternativa è solo fra l’infinito ed il nulla (nessuno dei due illegittimo o vano). Il film si chiude oltre i titoli di coda, e si apre in un confessionale senza possibili omissioni). A ben guardare, la settimana del protagonista è una metafora di un intero percorso di assunzione di responsabilità in terra a partire dalla parola integrità. E’ un film commovente, da cui si esce senza alcun odio per nessuno. E questo lo rende, in qualche modo, un film religioso, un film Francescano. Direi che, sebbene sia adatto a una elaborazione adulta per la verità senza sconti delle immagini e dei temi, dovrebbe essere davvero un film di Natale, che dà senso ad ogni essere qui, ed a ogni fede nell’arrivo del Natale. Pur senza speranza, pur senza alcun inganno, è un film che più che duro definirei d’infinito amore. Da cui ci si stanca cambiati, ed aperti. Così come, a Natale, si dovrebbe–
Calvary, un film di Natale
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