Sono stata, ieri, a vedere “Mia Madre”. Non c’è molto che sia possibile dire senza andare a ferire qualcosa. Un qualcosa che ha a che fare con la trasparenza dei corpi, e con la loro pesante immanenza. Qualcosa che ha un perimetro aperto ma detto, una prossemica dei sentimenti nella prossemica dei corpi, un reclamo che ri-chiede silenzio. Un po’ come si fa quando noi ci si incrocia, e ciascuno nel noi ha un suo compito denso, che l’altro interrompe se irrompe in parole.
[le parole più belle io credo le abbia scritte Travaglio. Tutto il resto, lo dice Moretti ogni volta. In quella sua presenza che “si” disarticola, rischiando al di fuori dal film. Con quel suo rovistare dentro, che la Buy ci consegna estenuato se rovista i cassetti. Di questo solo so dire, se penso. Dei continui incroci di in-esperienza, del mondo e di sé]
[E ci sono stati, sì, rinvii di esistenza: i piedi ed il corpo che vanno per strada, quel non sapere o potere portare e restare. Con quella Lazzarini, lì, che rintocca Herlitzka, che non morto si alza e va via nel film di Bellocchio. E ci sono state persino le scosse sul set, quel non saper ritrovare nessuna emozione alla parola operaia, se non nella frase che apre: Margherita che dice alla madre che non è un film triste, e sua madre che ripete ed interroga: Non è un film triste? Non è un film triste… Ci sono stati, come quando d’Aprile, l’eco quieta dei nomi dei farmaci, l’eco inquieta dei sogni. La placenta che perde ed allaga proprio mentre la madre muore. Proprio mentre. E quel mentre dura]
[E si potrebbe sostare e pensare e stare su ogni singola scena. Su una sceneggiatura ricchissima, rigorosa e ricolma di tatto. Su un Turturro alchemico, strabiliante e confuso, a sua volta un doppio che è lì come impastato, a una tenerezza stretta che se ne parte in un taxi (com’è che ti chiami? mi accompagni e poi dormi con me?… E’ uno scherzo) e si posa e riposa nella cena che raccoglie le carte mentre sfoglia le foto (ed i nomi, ed i volti). Ma non avrebbe senso. Che ognuno senta per sé, e magari ri-senta con l’altro, rasenti l’altro, come accade quando si è lì nella sala per vedere “quel” film].
E’ vero quel che dice Travaglio (lo cito a memoria), che si ride con le lacrime agli occhi e si piange ridendo, vedendo “Mia madre”. Io per me solo questo: non ho pianto molto, durante. E nemmeno, forse, ho riso. Ho pianto a lungo, sconsolatamente, quando a luci accese, sui titoli di coda, “Mia madre” mi ha lasciata sola, con tutto “questo” che tanto somiglia a ciascuno di noi.