Ho ricevuto molti mesi fa in lettura, dall’autrice, Stanze con case, di Letizia Dimartino. Nata a Messina nel ’53, vive a Ragusa ed ha al suo attivo un gran bel numero di raccolte. Mi scuso con Letizia per il tanto tempo che ci è voluto a prendere lo spazio per dar conto a lei, innanzi tutto, di una lettura che è stata fatta subito, ma rifatta nel tempo alla ricerca di un filo che sentivo forte e netto ma non coincidente con quanto espressamente la nota introduttiva (a cura di Gabriella Sica) rimandava a me lettrice.
Questa sua Stanze e case, così convulsa nelle Stanze, così più ferma nelle Case, ha il tratto bello e denso della scrittura in prosa. Senza che in questo ci sia alcuna diminutio. Ci sono case e stanze e anime e ritratti, ci sono versi di preghiere e girotondi che si fan da soli, e sembrano dervisci. C’è pieno e dolorante lo sguardo infante della piccola Letizia, che si dimena fra quei mantra, e le magie, e le rabbie. E sembra quasi di stare sul quel percorso di scrittura che spesso si accompagna all’uso del lettino. Come una verbalizzazione in chiave lirica di tutto un lungo ed irto percorso di ritorno, dal verbo alla parola, e alla parola per tornare al verbo, senza che ci sia luogo fuor dall’uscio.
Incontro ricco, questo, con la poesia di questa donna che scrive come se sognasse, con quel tempo scandito dalle claustrofobie spesso infinite che hanno i sogni. Come se non ci fosse fuori che abbia senso. Ci sono morti, e sparizioni, e invocazioni. Ci sono bende, occhi segnati, perdite e poi letti in cui si nasce, non si nasce, ci si addormenta ci si incontra. Uno dei versi più potenti ne richiama il senso nel letto che si eredita e si abita nel dopo delle stanze.
E’ la sola raccolta di Letizia che ho incontrato ad oggi, ma le sono davvero molto grata. Per averla inviata a una lettura che ha sentito la traccia di un percorso, del quale stento a dire perché lo sento in quell’azzardo di lettura che è sempre lì dove le pagine incrociano il lettore. Un percorso che va di stanza in stanza, come si fa quando bambini rigiriamo anche per ore sul bordo dritto di una mattonella, e quell’andare è un pregare e un benedire, chiedere aiuto e fare di ogni immagine quell’Angelo che ancora non sappiamo se riporti in salvo, e come, e dove.
Si legge come si sta di fronte a un nastro, bianco nei capelli, che si veda scivolare nelle forme del vento, quasi che la bambina piena di parole nelle stanze potesse trasformarsi in aquilone quando compare nelle Case la finestra, e per la prima volta è aperta. Un fitto andare che non va se non per porta, da camera in salotto, con la cucina che trabocca. Scrittura femminile ed ospiti maschili in mente aperta, come se solo lì potesse darsi una salvezza, un’ancora, un appiglio. Per colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa, recita la preghiera e noi con lei in letizia. Quasi che il nome illuminasse la forma del tormento, spegnesse un po’ la rabbia che tormenta noi bambini.
Non so sir altro, di una lettura che mi ha toccata nel profondo. Come succede quando si accede a un testo del rimosso, come sbirciando nel percorso di qualcuna che ha abitato, un pochino, accanto al nostro. Verso che sembra coinquilino a una ricerca, che da diario passa in verso e approda, infine, proprio vicino ad una stanza che sappiamo, e a un letto che sappiamo essere stato un poco nostro.