La legge del mercato è credo il più bel film che abbia visto di recente sulla relazione fra persona e lavoro. Per la regia di Stéphane Brizé, esce nelle sale nel 2015. La storia, del tutto ordinaria, è quella di Laurent che a 51 anni si ritrova a cercare lavoro. Come tanti di noi. Uno straordinario Vincent Lindon (premiato a Cannes come miglior attore) ci restituisce per un’ora e tre quarti, sempre presente a se stesso, la somma delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri di Laurent senza che sia nemmeno necessario palesarli nei dialoghi.
Ogni più piccola e articolata valutazione di cosa sia diventato il lavoro è lì, senza pietà svelato, nel corso degli eventi minuscoli della vita di Laurent, che ci avvolgono nella spessa materia del bisogno quotidiano accostato alla non appartenenza a un progetto di mondo che passi sopra le persone e le trasformi in procedure. Casi di studio, role playing e società di placement asserviti alla logica delle formazione continua come risposta parassitaria a una società che non riesce a pensare il lavoro né in modo antico né tantomeno in modo nuovo.
Sono davvero molti i film che hanno portato nell’ultimo decennio un contributo ben preciso al disvelamento alla solitudine grande che stiamo disegnando intorno alle persone, penso solo a titolo di esempio agli italiani Il posto dell’anima e Giorni e Nuvole, ai francesi La vita sognata degli angeli e al più recente Due giorni, una notte. E penso anche a quella piccola meraviglia che è L’età barbarica di Denys Arcand.
Se però questo film di Brizé mi colpisce in modo del tutto particolare, quanti insostenibilmente, è per quel riferimento forte, non eludibile, alla distanza oramai incolmabile delle agenzie di placement e di formazione continua dalla verità del dolore personale di chi perde il lavoro e non può ritrovarlo se non al prezzo di una dimora spinosa (in un mercato del lavoro che da un lato esprime regole di contrattazione e vissuto inaccettabili, e dall’altro fa sopravvivere parassitarie esperienze di formazione e consulenza che non sono capaci di aiutare davvero, all più capaci di generare un mercato per se stesse).
Ora, avendo per oltre 5 lustri dedicato la mia vita a capire come pensare il lavoro e le organizzazioni e la formazione degli adulti in termini di possibile intervento per il benessere e il miglioramento delle opportunità, un film che così puntualmente, senza troppe parole (ma senza che sia possibile confondersi in ambiguità), palesa la sconfitta sociale e politica di questa missione, non può che arrivare come la rappresentazione (chiara, solidale al dolore e all’inquietudine, e ineluttabilmente vera) a molti pensieri che da qualche anno sento premere sul mio io professionale.
Fra pochi giorni si svolge a Milano il Convegno nazionale dell’AIF, l’Associazione che in Italia da sempre raggruppa la comunità scientifica e professionale dei Formatori, e che ha svolto nel tempo una attività di osservatorio e di riflessione impagabile. Moltissimi e più anziani colleghi hanno contribuito a portare in Italia e fuori un contributo ricchissimo alla individuazione di un perimetro etico di partenza per chi si confronta con i vissuti dei lavoratori, delle lavoratrici, e delle imprese, nel privato e nel pubblico, che consenta di agire la formazione come opportunità di rispetto del lavoro e delle persone, possibilmente tenendo conto della priorità umana sempre indiscutibile.
Il titolo del convegno annuale è Liberare la formazione per generare possibilità. Non mi sarà possibile ascoltare i colleghi a Milano, ma penso e spero che si tratterà di una occasione concreta di riflessione non solo sul mercato della formazione, ma soprattutto e prima di ogni altra cosa sull’identità del formatore in un mondo in cui vien meno, sempre più velocemente, l’identità di chi lavora. E, temo, l’identità del lavoro.
Rivolgo qui l’invito, a quanti saranno relatori o partecipanti a Milano, a non sottovalutare il rischio della distanza della nostra professione dai vissuti e dalle trasformazioni traumatiche che mai come oggi toccano chi lavora e non lavora. Vi esprimo qui un invito ad un pensiero autentico, epistemologico e politico per la costruzione e ri-costruzione di una prospettiva professionale centrata sulla persona e sulla dignità del lavoro e non alienabile a un formatore.
Bello sarebbe che qualcuno portasse la prima mezzora del film in visione, al posto di qualsiasi discorso. Raramente ci è stata offerta, come in questa pellicola, una testimonianza di valore e disvalore di molti modi di essere formatori consulenti e fare consulenza e formazione.
Personalmente credo, da un po’ di tempo, che questa forma autentica di riassetto della figura professionale vada cercata davvero con un atto forte di presa di distanza, presa di distanza da progetti e modelli d’intervento che sono asserviti alla Legge del mercato e hanno dimenticato il valore dell’uomo e della donna. E il valore del lavoro.
Con l’augurio migliore di buon lavoro a voi colleghi e colleghe tutti, in rete e fuori confine, mi permetto di ribadire l’invito: andiamo a vedere tutti questo film, e togliamoci con Laurent la tenuta da lavoro, uscendo fuori.
Anche riprendere la propria auto in un parcheggio può essere bellissimo, se si percorre lo spazio il più possibile liberi da una formazione che si vuole asservita alla Legge del mercato.