L’inverno scorso, così come l’autunno che lo aveva preceduo, e poi la primavera, finanche il sole dell’estate, sono stati un torrente che ha negato, sottratto, ferito, cancellato. E non penso soltanto agli spari, al cadere dal cielo delle orme dei tuoni, ai corpi che si sono dissolti in mare, come i sogni al mattino che ci lasciano soli da tanto sperare. Penso anche all’acredine stretta che ha gridato le strade, le piazze, le urne, i giornali. Penso a come si sia fatta passare, raggelante e nefasta, la potenza di qualcosa che sa dire soprattutto di no. Noi non siamo, checché se ne dica, la nazione che muore di fame. La fame è ben altro. Non siamo la nazione che lascia morire per strada le donne e i bambni, ed i vecchi. Per certo, stiamo andando, con passo veloce, nel centro di quel sentimento dell’odio che rende possibile questo. Sentimento dell’odio per tutto quello che si sente vibrare, rianimato persino nell’occhio di una grande tempesta. Per questo, sto leggendo con grande passione, lo scritto di Nadia Fusini. Per cercare di dire a me stessa cosa sia la tempesta. Lo leggo e ripenso a quei tanti, da Gordon (Lawrence) a Freud, che l’hanno citata, la Temepesta, e il suo stare. Ho bisogno di dire di sì, di vedere che sì, ce ne son di cose che fanno passato, che cancellano, mortificano, illudono e ci portano danno. Ma anche che sì, ce ne son di cose che si possono fare, far stare lì erette a ridire di quello che abbiamo pensato, costruito, sentito ed amato, per secoli, a danno del peggio. Io non credo che si debba rottamare, cancellare, scacciare né nessuno né nulla. Io credo che si tratti ogni volta di com-prendere e rimettere avanti. Di creare connessioni e contaminazioni, di dar forma alle cose per quello che sono, senza niente negare, ma piuttosto dicendo di quello che possiamo vedere, osservare, cambiare e ri-valorizzare. Dire sì al sentimento del buono, dar fiducia a qualcsa che sentiamo esser parte di noi. Lo spazio per guardare la Legge, Antigone, Isacco. Lo spazio per pensare la parola dell’uomo, la parola di donna, la parola di Dio, come grande riserva di senso. Anche quando ha ceduto, anche quando si è persa. Per cambiare bisogna sentire che sì, noi possiamo. Ma possiamo davvero. A costo di un onesto guardare le cose nella loro interezza finita e sfinita, nel loro poter essere nuove. Nuovo è il mondo che ci vede dialogare con qualcosa che non sempre possiamo condividire e far sì che sia nostro. Ma possiamo e dobbiamo cmprendere nel nostro orizzonte. Per poterlo portare a vedere ciò che abbiamo costruito nel tempo per l’uomo e la donna, per ciascuno che porti il sapore e l’odore di chi in terra ha il compito vero di fare per l’altr@, con l’altr@, senza in essi smarrirsi. Non dobbiamo spazzare via nulla, non dobbiamo far crollare né il vecchio né la traccia di Storia che siamo. Dobbiamo lavorare perché sia, tutto il nostro sentire, portato lì dove abbiamo sempre sperato. Dove il fuoco sa essere il simbolo bello della vita che tiene, del tempo che ci rende migliori, dello stare vicini e non sotto, non contro. Farsi nuovi non vuol dire snaturarsi né perdersi. Farsi nuovi vuol dire imparare, ancora ed ancora, una parola nuova, una coscienza nuova. Una nuova visione che ci faccia sentire davvero qui, adesso, “a casa”. ovunque noi siamo. Fare casa nelle cose dei giorni.
*L’immagine è da qui
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