Ho letto La vegetariana, della coreana Hang Kang quasi d’un fiato. La prima, la seconda e poi, con una pausa, la terza parte. La storia, che parte dal progressivo distacco della protagonista da tutto quanto la fa sentire aggredita, nutrita di sangue, persino antropofaga, parrebbe avvicinarsi all’emersione del tema dell’anoressia come linguaggio che segna un distacco, che grida senza dire ma “significando”. Si rivela ben presto, però, come qualcosa di più complesso e salvifico, sebbene descriva uno svuotamento, e una perdita di relazione con l’ordinario del mondo. Partendo da un matrimonio fondato su indifferenza al sentire reale, attento alle prassi e alle pratiche ma ineducato ai sentimenti profondi, rivela nell’introduzione dei co-protagonisti (il marito, la sorella e il cognato della giovane sposa, con sullo sfondo rosso le figure materne e paterne, e la cultura orientale dell’osservanza) tutto uno strato di “emergenze” che risalgono alla superficie della relazione esistenziale con la mediazione del sogno notturno, del vissuto onirico. E’ così che la donna, da prima intensificando nell’esclusione della carne una forma di sottrazione alla violenza, apre piano piano la strada a un progressivo ripulire il corpo, la mente, le parole, gli spazi e i dialoghi da tutto quanto non le restituisca il sentimento profondo di una alimentarsi alla luce, al bene e al bello. La sposa ragazza si trasforma, nell’esile corpo segnato dalla macchia mongolica sul gluteo, da prima in stelo da ikebana, da tela corporea per un sogno (rivelato dal desiderio della forma che si nasconde nel corpo della giovane donna), portando un artista audiovisuale (il cognato) a perdersi al proprio progetto estremizzandone la portata eversiva; per poi trasformare la sorellanza affettuosa, che vorrebbe riportarla al dialogo in terra ed in corpo, in una occasione di ripensamento e ridefinizione (irrisolti) del proprio percorso da parte delle sorella. Il nucleo dunque sembra essere, senza scampo, la distanza fra sanità e compromissione al subire e follia e liberazione da ciò che ci definisce ri-vestiti di ruoli e linguaggi, e abitudini. Folgorante, in questo senso, la metafora in fin di libro, della donna pianta, che si radica con le mani nel terreno, per capovolgere il mondo e alimentarsi ai raggi del sole. Non è un libro triste, La vegetariana, è qualcosa di più. Qualcosa che ricorda Cuore sacro di Ozpetek, e un libro di Stefano Marcelli. “Il dio femmina stuprato nel bosco” (di cui ho purtroppo smarrito la copia nei meandri della mia bilbiotechina personale), pubblicato molti anni fa da Fazi. E il qualcosa è il percorso, sempre individuale, solitario e dall’esito incerto di una ricerca di senso. Che è sì, in questo breve romanzo, in apparenza disperante. Ma che cela e rivela la necessità di una esfoliazione, che ci faccia sentire chi siamo. Se pure non esista finale nel libro, che questo non sia sufficiente a non farcelo amare, almeno un po’, come un libro sano, di sanità nella follia. Nella lucida follia, come recitava un titolo della Von Trotta.
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Quando spogliarsi è come defoliarsi. Perché val la pena di leggere La Vegetariana
