dove l’autobiografia è un atto collettivo

Un po’ delusa dopo la visione di Tre piani, che non avevo forse amato molto, attendevo di ritrovare quel sentimento di calore un po’ scomposto (quella ritrosia che si rivela accogliente in quella bella minoranza di persone) mentre andavo a vedere, venerdì al Nuovo Sacher, Il Sol dell’Avvenire, ultimo film di Nanni Moretti, a maggio candidato a Cannes

All’arrivo verso la sala, nei cento metri fatti a piedi, vedevo defluire coppie e gruppetti sorridenti, apertamente sorridenti, in uscita dallo spettacolo del primo pomeriggio. Tanto che, davanti a due donne simpaticamente cinquantenni non ho resistito ed ho detto: “ma uscite tutti sorridenti?”, generando in loro una piccola perplessità. “Da dove?” chiede la prima delle due. Ed io: “Dal film, immagino”. Allora il sorriso della donna 1 si fa più ampio, mi si avvicina e dice: “Ha presente Tre piani?, ecco, tutta un’altra cosa. E’ un film bellissimo, è tornato Moretti”.

Il popolo del Sacher è un popolo preciso, un po’ Ztl, un po’ profondi cinephiles, un po’ quartiere Prati, alcuni e alcune che studiano al DAMS, moltissimi poveri e povere diavolə come me, la cui giornata è dispersa fra psicanalisi, blandi psicofarmaci di salvaguardia, lavoro e impegno civile, post comunismo e gelaterie, ognuno come può e se può.  Insomma, uno dei pochi posti dove vai volentieri, ma non alla prima, almeno alla seconda giornata delle giornate di programmazione. Quando sai che alla stessa ora Moretti presenta il film al Mignon. Perché non vuoi che la presenza del regista ti condizioni nel tuo rapporto con il film. 

E il Sol dell’Avvenire è un film bellissimo, struggente, serio, approfondito, esplicito, impagabile, sovrabbondante. Una sacher torte nella quale se fai il tunnel anneghi. Ed io, per gli ultimi 15 minuti del film quasi annegavo nelle lacrime. 

Non è per nulla un film autoreferenziale, anzi. 

E’ un film biografico sul cinema, sul Partito Comunista Italiano, sulla bellezza del Circo come metafora, su Fellini, Kieslowski, su Ozon, sulla funzione etica dell’arte, sul primato del cinema sul mercato, sulle leggi del mercato, sulle nuove economie, sulla passione insana per la morte, sul degrado urbano e la celebrazione televisiva delle Uno Bianche di ogni quartiere. 

Ed è un film sull’amore, sulle persone, sulla salvezza che ti dà la tua storia personale, quella che ti danno i tuoi legami, le tue emozioni, i tuoi rituali ed i tuoi lessici familiari.

E’ un film sullo smarrimento, sulla vita che sconfigge la morte, se può. Sui funerali come festeggiamento solidale, sulla freddezza inutile dell’animalismo d’accatto, del politically correct. E’ un film sulle separazioni e sugli sguardi da lontano, sulla sicurezza degli oggetti. 

E’ un film dove fa freddo freddo e caldo caldo, dove una notte insonne può durare fino sfinirti, ma tu sei lì, a rivedere il 900. Ma anche avanti, non solo però, sulla strada di McCarty. E’ film antifascista, è un film Trozkista, ed è un film d’amore come li fanno solo Ozon e la Francia. Che tu alla fine, più che pensare a Netflix ti rivedi mentalmente tutti i fratelli Dardenne. 

No, non è un film autoreferenziale, tutt’altro. E’ un film su due o tre generazioni, con in mezzo anche la mia. E’ un film che mentre sorride forte il viso di Jasmine Trinca ti scendono le lacrime, e non si fermano più. 

E poi a casa ti riempi della bellissima musica italiana, e scopri che quella Noemi che “Sono solo parole” l’avevi lasciata passare senza accorgertene, e allora la riascolti, con il tuo compagno di vita, il tuo sposo, sul divano, a notte fonda. E rivedi persino la sigla di un programma in bianco e nero di quando eri bambina, dove due hanno in mano secchiello e pennelli e su una porta scrivono i titoli con la vernice. E cerchi il tuo, di  Sol dell’Avvenire.

(Nerina Garofalo)


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