A proposito di smarrimento, ricerca, solitudine e adultità

Ho visto di recente “Ritorno a Seul”, il film del 2022 scritto e diretto da Davy Chou. Il tema è difficile, soprattutto per chi viva l’esperienza della genitorialità adottiva. Che a conti fatti è come una genitorialità naturale nella quale la placenta che la prepara e le dà vita si nutre a una storia biologica della quale non sapremo mai, che ci prescinde, ma che entra a far parte di noi nella costruzione di quel rispetto assoluto per due luoghi del vivere:

  • i pensieri e i sentimenti che non dovremo mai “violare”, essendo il perimetro di una esperienza che ci prescinde e sulla quale non possiamo intervenire,
  • il dover permettere e proteggere la libera scelta esistenziale dei nostri figli nel confronto possibile (ma non necessariamente utile e imprescindibile) con quella parte della loro esistenza che ha originato la vita, quella vita di cui siamo poi divenuti parte integrante. 

Ci sarebbero cumuli di menzogne in gioco se si dicesse che naturalmente si arrivi a tutto ciò. Quanti e quanto contrastanti possono essere i pensieri, nati per proteggere, per proteggersi insieme, ma anche alimentati a un profondo “senso di colpa” per aver occupato lo spazio di “qualcun altro”, di un’altra vita, sia pure in alcuni casi volontariamente assente. E in molti, persino colpevolmente assente. Non tutti gli abbandoni sono inevitabili. Sarebbe ipocrita affermare il contrario. 

Ora, vedere questo film, così immensamente bello, così onesto e lacerato, è quasi doveroso. Sebbene rappresenti, nel ruolo genitoriale di cui parlo, la consapevolezza di non poter proteggere dal passato, dall’origine, e quindi palesi quello che più turba chi sia padre o madre: non “esserci” per qualsiasi bisogno, timore, scoperta, incontro fondamentale.

Palesa, dunque, a un tempo due tempi (come se noi fossimo l’intermezzo necessario e bellissimo e struggente): il tempo della prima nascita (la nascita) e il tempo adulto, che si riempie di vita che non è “sempre con noi”. E vediamo, anche, la bellezza assoluta, piena, densissima e potente, del “luogo madre” che con i nostri compagni/e e con i nostri figli, abbiamo saputo e voluto creare. Perché si potesse superare quello che ha interrotto il prima, e arrivare forti e liberi al dopo. 

Più saremo stati liberi e onesti con noi stessi e con chi amiamo, più avremmo vissuto questa maternità e paternità come voluta e piena, più il prima e il dopo sapranno essere nel luogo dove devono. Ovvero prima, e dopo, come si vorrà e saprà. 

Quello che il film rappresenta è il “confronto con il non pensato”, e l’ostinazione con cui la protagonista cerca in ogni modo di fare pace, scoprendolo. Dove l’”io sono” è trino, perduto alla sua origine, protetto e attivo in una ricostruzione e in una origine nuova, adulto e libero nel confronto con esso. Un confronto con il se stesso voluto, desiderato, in compimento continuo, come nell’adultità accade a ciascuno di noi. 

Perché l’adozione, se vera e senza ombre, ma non senza inquietudine come tutte le paternità e maternità e figlitudini, sfida la regola prima della famiglia biologica, aver generato il futuro e lasciare traccia di sé.  Sa nascere, l’adozione, fuori dall’idea di possesso, di consanguineità, di replica del dare la vita. E si dispone a una vita che ci si dà con reciprocità e fiducia, con amore senza sangue, senza placente, senza alcun taglio di un cordone ombelicale. 

Ci sono sono solo tre vite che si riconoscono e imparano a conoscersi, che vivono insieme l’esperienza dell’essere “nel mondo” e non quella di “venire al mondo”. Essere stati, esserci, essere fuori avendo saldo un dentro. 

E’ stato inevitabile per me vedere il film e chiedermi, da madre adottiva, come avrei potuto fare se fossi stata nella madre francese della protagonista affinché le domande fossero libere, ma anche che i nodi si sciogliessero senza arbitrio.

Come avrei potuto guardare quel dolore, inizialmente fiero della propria identità di oggi e poi così lacerato da una domanda intima che non trova mai la sua risposta fino in fondo. E se la trova, disegna ancora una volta una assenza, o una ingombrante e accecata ricerca di cancellazione del passato (come nel padre della protagonista, nel film). 

Non ho risposte, e infine, per me stessa, non ho nemmeno domande. 

Dopo aver molto sofferto vedendo il film, mi rendo conto di essere dove sono, quella che sono. Semplicemente una madre. La madre di mio figlio. Che nulla può né deve sapere delle domande adulte che ci saranno, se ci saranno. 

Le mie domande sono solo quelle a cui posso rispondere per la nostra storia, con la nostra storia. Per tutto il resto, libertà e rispetto, e se serve silenzio.  Un faticoso silenzio, forse, purché pieno di rispetto e di amore. Senza nessuna sottrazione. Senza nessuna riserva. Senza nessun timore di non essere più io. Ma capace di accoglierle se dovessero arrivare a me.

(Roma, 19 luglio 2023)


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