Still Alice, scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, è un film straordinario che senza alcuna retorica racconta i temi del ricordo, dell’identità, del gruppo di famiglia, della sua perdita e del diradare della mente.
Il diradare dei luoghi, delle parole, dei compiti e dei ruoli, ma non dei sentimenti. Amore e dolore, e paura e disamore, per la sopravvivenza o per parziale in-differenza, vengono qui raccolti, porti, detti, in tutta quanta la medietà del nostro essere nel mondo, accolti e disaccorti.
E’ c’è un’impressionante Julienne Moore che interpreta, con empatia che è quasi insostenibile, la storia di una docente di linguistica colpita (assai precocemente) dal morbo detto Alzheimer, che irrompe nella vita, e nella sua di storia (genetica e di madre), proprio a partire dalla perdita di tutte le parole.
Perdita che è dei nomi delle cose, degli orari sui taccuini, degli ingredienti nel pancake. Con tutta la ferocia di un piccolo tsunami di cui coglie sin da subito il profondo ed iracondo essere grande, inarrestabile, ed infine inaccettabile. E nonostante tutta la sua intelligenza vigile d’inizio, la vita la depriva persino del diritto a mettere una riga sotto tutto quel suo perdersi e disperdersi. O forse la protegge il caso.
Ci sono i figli, con le loro vite e assenze, con tutto il loro voler dire che si sta comunque, che si tiene fermo il mondo, anche se accanto c’è chi amiamo che non siamo più capaci di ospitare dentro, presi che siamo dal nostro progettare vite e mondi.
Credo che chiunque abbia incontrato, accarezzato anche soltanto con lo sguardo la perdita di senso e non di sentimento che ci lascia muti alla barriera dello smarrimento (di questo specifico, preciso e tormentante smarrimento), sappia per certo quanto di ambiguo, ambivalente, indifferente alla sostanza si celi sotto il nostro sguardo, che noi vorremmo sì pieno di amore, e a volte invece è solo pieno delle nostre vite, indifferenti a quella perdita nel nostro esser integri e pensanti, e non sa stare, non può dire.
Ho amato tutto, in questo film (come era stato per quello su Iris Murdoch), ma qui la medietà ci coglie interi per davvero. E siamo noi. Con cumuli di impegni e di progetti, così incapaci di pensarci fuori dallo schema della vita per ritrovare quella vera, così colpita e infragiita e intera nella sua mancanza.
Perché davvero, se non siamo ipocriti, noi lo sappiamo: il diradare della mente ci taglia fuori, e lascia fuori, e ci vorrebbe disperatamente dentro. E noi quel dentro non lo com-prendiamo, non lo possiamo reggere, non lo conosciamo. Ci sfuma tutto nei contorni di chi amiamo. Ci rende isterici, contratti, e poi nervosi, e infine stanchi.
E tutto quanto l’amore che proviamo non fa altro che portarci lì dove noi non siamo con, non siamo per.
Ma per Alice c’è una figlia che si accosta, che si ritrova, che toglie ogni lucchetto dai diari, che si ridefinisce nel suo mondo per stare dove accade che si stia perdendo la mente della madre. E la accarezza senza mai toccarla. La copre di un pudore che sa dire e sa significare. Che non condanna un padre che tradisce, che insegue per difendersi un suo modo (di sopravvivere al dolore e al sentimento della fine, sua più che di Alice).
E noi sappiamo che spesso lo facciamo, tutti e tutte, non ci facciamo sconti, è vero. E’ mondo. Mondo che non si conta e non ci conta. Mondo che non sa dire di ciascuno, proprio ciascuno dei capelli sopra il capo. Noi siamo la paura che ci accada, che ci riguardi, che ci intacchi.
Forse dovremmo solo stare fermi, accanto, per il possibile, sapendo che è uno scacco. Ma che scacco sarebbe se ci fosse un nostro dire, un nostro fare capace di cambiare le regole del buono, del sano, del produttivo, del futuro. Perché la vita non è fatta di progetti. Credo, piuttosto di occasioni. Di piccole, fugacissime occasioni per carezze, per essere migliori, di come siamo, di come re-spiriamo.
Credo che ognuno possa dire sempre, guardandosi allo specchio, quello che dice Baldwin nel partire, nel lasciare che sia la figlia a ritrovare la via delle carezze: “tu, cara mia lo sai che sei, [decisamente], un uomo [e si mantenga la ferocia del maschile, geniale colpo di intelligenza bivalente nella sceneggiatura, senza disperdere l’intelligenza di questa notazione degli autori] migliore di me”.
La nostra forza, nel mondo, è uno stereotipo, che ci lri-ascia mutilati, se noi non lo spezziamo.