Ho letto d’un fiato, in due momenti di primavera in terrazzo, “Vallanzasca”.
La graphic novel, appena uscita per la Round Robin, è sceneggiata, con densa e sapiente finezza, dal cosentino Luca Scornaienchi, e disegnata, magistralmente, dall’artista sardo Jonathan Fara.
Presenti entrambi nel panorama creativo di questi anni, con questo loro lavoro hanno donato, a noi e alla storia di questi ultimi anni (e di altri antichi e smarriti nel tempo) un ritratto chiaro di dolcezza sfinita, del tutto priva di retorica e tranelli, di uno dei più noti e favoleggiati protagonisti del noir della mala-vita reale. Il bel Renato, per certo colpevole, così difficile da definire e circoscrivere stretto. E infatti loro non circoscrivono, lasciano tutto andare lento, in mare aperto.
La lettura in terrazza, al tavolino di marmo e ferro che mi ha ospitata, rievoca la sosta in un Café. Mi è sembrato, confesso, istintivamente inevitabile mimare leggendo la scena di innesco che Luca Scornaienchi mette in nota iniziale, per ridarmi il senso di quel respiro forte [interno esterno, interno esterno] che presentivo che questa storia avrebbe potuto evocare. Ed così che è stato.
Un testo limpido, definito, elegante, mai sopra le righe, eppure a tratti come vicinissimo al verso. Tutta una serie di tavole e parole che ti portano dentro, in un dolore pulitissimo, privo di sfondi e leggibile, fino a saturare in lettura, con inquadrature che sapientemente “tolgono” (la Storia), e sapientemente mettono (dialogo e persona) in primo piano.
Tavole depurate dal colore. Come dev’essere ed è, perché il colore di questa storia è un nero, che si accompagna al bianco e tiene il rosso dentro, come custodito lì, non rimosso e celato, nel luogo invisibile che non si rimargina mai.
Ed è dal bianco, infatti, dell’infanzia intoccabile, che prende il passo e chiude questa narrazione che non ha fine, con una storia di bambini e di tigri che sanno essere esca, e al tempo stesso automobile in corsa. Per trasportarci altrove, prima di ogni evento, nel luogo esatto dove l’infanzia finisce, e non si sa, né si vuole, che l’infanzia stessa ci finisca mai.
Luca Scornaienchi ce la presenta da subito a partire da una perdita, come una historia negra che ci si narra comunque; mentre si perde per “caso” l’occasione vera– di sentirla narrare. Da voce viva e al caldo dello sguardo.
E ce la conferma portandoci, come in veste privata, nel luogo vero di incontro, a cui la sorte fa inciampo. Che sottrae e ha sottratto, almeno stando ad oggi spero io, al narratore la sua voce narrata. La perfezione spezzata fra biografo e graffio. Forse è per quello che ho scelto, dopo appena due pagine, di andare a leggerlo lì, a un tavolino sul terrazzo.
Come se fosse un recupero, di scarto dal reale, di quella convergenza. Che si scopre negata dall’ultimo arresto, poco dopo l’incontro col disegnatore biografo, e che torna, nell’azzurro degli occhi a parlarci impudica e lucente, nel lavoro bello di Scornaienchi e Fara, di Vallanzasca— Renato.
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