Niso disse: “Gli dei forse aggiungono ardore ai cuori, Eurialo, o la propria terribile passione diventa per ciascuno un dio? O il cuore mi agita lo scontro, o a tentare da tempo qualcosa di grande, e non è contento della placida quiete?”
(Virgilio, Eneide libro IX)
A proposito di congiunti, amici, innamorati e solitari— Credo che oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di ancor più difficile da comprendere e tenere fra le dita della quarantena. Qualcosa che richiede un posizionamento in un luogo non definito, nel quale la parola che si sente venire dalle conchiglie perse di un mare non varcato è la parola distanza. Come se il giorno cominciasse, sempre, con una strana saudade, con una nostalgia del possibile e del non accaduto, di ciò che non accadrà.
Raschiamo il fondo del barile dei ricettari, delle scatole dei ricordi, delle biblioteche familiari, avvinti ai nostri piccoli domestici compagni come a scogli e coralli di una bellezza ritrovata, e diventiamo abili in tessiture di reti che mai prima avremmo messo al fuso o al margine di questa nostra goletta, in secca dentro casa.
Come se costruissimo giganteschi e incontenibili galeoni, e disegnassimo allo stremo l’ossimoro del nostro mare che vorremmo ancora in tempesta. Ci interroghiamo sulla natura, sulla natura delle cose, e in tutto questo non fare, operoso e pervicace, ricordiamo a noi stessi che occorre lavorare, produrre, ricreare un’ipotesi, fosse pure costretta, di normalità. Di normalità nell’enormità del mare fermo. Del mare dentro.
In tutto questo, usiamo le parole, sovrabbondanti e accattivanti, e ci sentiamo zitti, zittiti, afasici, ingombri ed ingombranti, erosi dal silenzio che troppo rumoreggia.
Io non so, non comprendo bene ancora, non mi interrogo se non lateralmente, Però qualcosa intravedo, pre-sento, provo a dire a me stessa. E questo abbozzo di discorso, questo qualcosa fatto di parola tentata, ha pudore di sé.
Leggo oggi diffusamente la parola amore, l’ho usata e la tengo stretta. Ma siamo, non dimentichiamolo, l’albergo degli ossimori, la stanza a ore dello scontento, il Motel Supramonte.
Quanto potrei durare io, quanto noi potremo, in questa nostra keatsiana capacità negativa?
Quanto potremo stare nell’indeterminato senza riprendere fiato?
Ecco, forse, io vedo all’orizzonte il mio Eurialo, quello che posso immaginare tratteggiato in una nuova alleanza sociale, che si fonda sulla domanda aperta, sull’esclusione del pre-giudizio, eppure fortemente si aggancia a una strategia dell’oggi, che il domani lo disegni a passi, che il futuro lo metta in conto come la profonda avventura di un qualche dopo di noi, dopo Covid, dopo-tutto.
E intanto? Intanto cerchiamo tutti di non sbagliare, di non mettere un freno alla nostra meraviglia e allo stupore, alla sorpresa del possibile, del tentativo, del sentiero.
Sapendo però che la certezza, la strada ferma, il passo certo, mai come oggi ci arrivano sottratti. E forse quindi, nemmeno noi dobbiamo essere a cercarli. Non desidero una promessa, non desidero alcuna certezza, desidero una con-vivenza. Virtuosa.
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(Ph Nerina Garofalo – Model Vera)