Dylan Thomas with his wife Caitlin

Che uno poi guarda: le cose dentro, o una,

e le apre, e poi le rompe. E le interrompe,

come farebbe un cieco che stia cercando

la forma concava del mondo nei resti di un ruscello.

O come un quando una ragazza alza la gonna

[le americane lo facevano allo specchio

ed era un Master in storia antica con tanto

di pergamena in tinta rossa]. E poi si ricomincia,

si contesta la forma e si riversa, alla sostanza

la stanza più non basta, e avanza. Si scrivono

trattatelli di filosofia, li si maltratta, si ritratta la tratta,

su strada si incrocia la ragazza contratta, distratti dalla

vita, e si fa il gesto, il solo gesto,  minimo, minore,

insufficiente, di una carezza astratta, malsicura e

malriposta, come una mariposa che si fa strale

di odorosa rosa che non si sappia dire vite, e cosa,

senza farsi ritrosa, la ritrattata carezza che noi no, noi no,

e poi no e noi no, noi non sappiamo dire e dare e diradare.

Sempre la  stessa storia, che si istoria nel letto umido del

fiume che portiamo, inscritto nelle ossa, fiume nel quale

[noi] non sappiamo più lasciare andare, e che possiamo solo

riportare [lì alla foce], dove la voce incanta il fantolino, il geco,

il tarlo, il tacco del cavallo, il collo di giraffa, la volpe che si sveglia.

E poi si ricomincia, e si può solo rompere, tastare, frugare,

intrufolarsi con le dita, sentire al tatto, consumare. Riparare.

*

(a latere della lettura dell’articolo Life with Dylan and Caitlin Thomas, e per l’infinito amore per Amore in sanatorio, by Dylan Thomas)


Una replica a “Amore [in sanatorio]”

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