
Che uno poi guarda: le cose dentro, o una,
e le apre, e poi le rompe. E le interrompe,
come farebbe un cieco che stia cercando
la forma concava del mondo nei resti di un ruscello.
O come un quando una ragazza alza la gonna
[le americane lo facevano allo specchio
ed era un Master in storia antica con tanto
di pergamena in tinta rossa]. E poi si ricomincia,
si contesta la forma e si riversa, alla sostanza
la stanza più non basta, e avanza. Si scrivono
trattatelli di filosofia, li si maltratta, si ritratta la tratta,
su strada si incrocia la ragazza contratta, distratti dalla
vita, e si fa il gesto, il solo gesto, minimo, minore,
insufficiente, di una carezza astratta, malsicura e
malriposta, come una mariposa che si fa strale
di odorosa rosa che non si sappia dire vite, e cosa,
senza farsi ritrosa, la ritrattata carezza che noi no, noi no,
e poi no e noi no, noi non sappiamo dire e dare e diradare.
Sempre la stessa storia, che si istoria nel letto umido del
fiume che portiamo, inscritto nelle ossa, fiume nel quale
[noi] non sappiamo più lasciare andare, e che possiamo solo
riportare [lì alla foce], dove la voce incanta il fantolino, il geco,
il tarlo, il tacco del cavallo, il collo di giraffa, la volpe che si sveglia.
E poi si ricomincia, e si può solo rompere, tastare, frugare,
intrufolarsi con le dita, sentire al tatto, consumare. Riparare.
*
(a latere della lettura dell’articolo Life with Dylan and Caitlin Thomas, e per l’infinito amore per Amore in sanatorio, by Dylan Thomas)